Il piano pandemico di Regione Lombardia era inadeguato
Lo dicono tutti e a tutti i livelli. «Nessuno pensava si potesse arrivare ad una situazione così». L’Italia, come il resto del mondo, è stata sorpresa dalla violenza del coronavirus e ora gli esperti attendono il calo dei contagi per potersi preparare in vista di un possibile ritorno in autunno. Eppure un «piano di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale» c’era e c’è. Anche in Lombardia e a Brescia, dove è stato aggiornato nel 2013.
«I sintomi più comunemente riportati nei casi umani affetti da influenze potenzialmente pandemiche, sono: febbre superiore ai 38ºC, tosse e dispnea con presenza di infiltrati polmonari aspecifici alla radiografia del polmone» è la premessa contenuta nelle 21 pagine di misure e provvedimenti. Che oggi risultano insufficienti per contenere una pandemia della portata del Covid-19.
Un dato su tutti e riguarda l’utilizzo delle mascherine protettive. Il fabbisogno teorico mensile è suddiviso così: «66.000, tenendo conto di due cambi al giorno per 1.100 operatori per 30 giorni, alle quali ne vengono aggiunte «14.000, tenendo conto di tre cambi al giorno per 140 operatori potenzialmente esposti tra i dipendenti dell’Ats (personale medico, infermieristico, ecc.) per 30 giorni». Totale: al mese dovrebbero - secondo il piano regionale e locale - essere impiegate 80mila mascherine e «per gli ambienti ospedalieri ciascuna struttura di ricovero dovrà provvedere in proprio». Una programmazione fortemente al ribasso se si pensa che solo in Lombardia oggi la richiesta è di 300mila mascherine. Al giorno. E nel documento locale per l’attuazione del piano regionale, non era stata nemmeno indicata la tipologia di mascherine da indossare tra quelle chirurgiche e le ormai famose FFP2 e FFP3.
«Di particolare rilievo, nel caso di emergenza pandemia, è la predisposizione presso ogni struttura sanitaria di un piano per garantire il massimo vello assistenziale durante la fase pandemica» si legge nel piano datato 2013. «Possono essere sollecitamente reperiti 314 posti letto aggiuntivi in caso di iperafflusso di pazienti acuti». Un numero che stona con la realtà attuale visto solo nei primi 12 giorni dell’emergenza a Brescia, dal 24 febbraio al 6 marzo, i casi di Covid accertati da Ats Brescia sono stati 436 e nelle successive settimane si sono registrati picchi anche di 380 casi in un giorno.
Venne messa nero su bianco la strategia per l’assistenza a casa. «Sono state definite le modalità - si legge - per garantire l’incremento di assistenza sanitaria a livello domiciliare sottoponendo agli enti pattanti un protocollo di intesa volto a garantire al meglio l’assistenza dei malati ed un livello condiviso di appropriatezza in caso di ricovero ospedaliero». Oggi chi è malato a casa e ha sintomi compatibili con il Covid-19 non riesce nemmeno ad essere visitato dal proprio medico. Per quanto riguarda invece gli ospiti Rsa e case di cura «gli obiettivi del Piano tendono a garantire un’adeguata assistenza agli ospiti ed a contenere l’invio di pazienti al ricovero ospedaliero». E comunque nessuno, con sintomi, stando al progetto sarebbe dovuto rimanere in attesa.
«Per sospettare un nuovo caso di influenza pandemica, - si legge - deve essere presente almeno una delle seguenti condizioni epidemiologiche: contatto stretto (minore di 1 metro) con una persona affetta da patologia respiratoria letale di origine ignota, contatto stretto (minore di 1 metro) con una persona nella quale sia stata diagnosticata l’infezione da nuovo virus pandemico». Oggi queste persone restano in casa sperando in un tampone.
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