Il cancro al tempo dei social network
Chiara Gandolfi non si era mai resa conto di quante donna indossassero la parrucca. Ha deciso di non portarla, di vivere la malattia in maniera aperta: «Ognuna è libera di fare ciò che sente, io ho deciso di non mettere la parrucca perché non voglio nascondere nulla». E così ha iniziato anche a parlare della sua situazione sui social, con lo stesso spirito con cui affronta la vita reale: «Ho il cancro metastatico», scrive online senza girarci attorno, ora che di anni ne ha 40 e da cinque sta affrontando il tumore al seno.
«La prima volta ho scritto che ero in ospedale in attesa di un letto, quasi per caso, senza pensare a cosa poteva scatenare tra chi mi conosce. Era il gennaio 2013, quando dovevo essere operata. Poi ho continuato, ho deciso di parlarne su Facebook e su un blog, Lisadea, per non rinunciare nemmeno a questo aspetto della mia vita - racconta -. Sono scelte che fanno parte di un tentativo di vivere nel modo più normale possibile anche questa condizione». Non è stato facile farlo, all’inizio: «Mi colpì molto il modo in cui Barbara Baldassarri parlava del cancro in un’intervista video. Anche se sapeva di non avere molto tempo davanti, affrontava la cosa con tranquillità, direi che mi ha aiutato».
E quando Elena Fanchini, il 12 gennaio scorso, ha annunciato il suo momentaneo ritiro, ha scelto di farlo anche attraverso i social. Con un post che ha ricevuto oltre novemila like, un migliaio di condivisioni e 1.900 commenti: messaggi di auguri, di solidarietà, messaggi in cui altri condividevano le loro esperienze con il cancro per farle coraggio. Attorno a lei si è raccolta una comunità non solo di fan, ma anche di persone che stanno vivendo o hanno vissuto situazioni simili. «Leggo che siamo in tanti. Ognuno ha la sua storia ma una cosa ci unisce tutti, la voglia di sconfiggere quel "bastardo", di continuare a sorridere e di farsi attraversare da quella follia che ti fa sentire così forte da non lasciare scampo a quell’intruso», ha commentato online Stefano Vaccani. Perché se è vero che i social, e in particolar modo Facebook, sono collettori di reflui, ma se ci restiamo è perché in mezzo ci troviamo pure dell’altro. La possibilità, ad esempio, di comunicare in modo chiaro, senza filtri, il modo in cui stiamo, anche quando stiamo male, particolarmente male.
«Si deve parlare di cancro, se ne parla ancora poco», dice Cristina Wührer, psiconcologa con un’esperienza quarantennale, ora impegnata nella Breast Unit dell’ospedale Civile. Wührer ha anche scritto un libro, undici anni fa, raccontando la sua personale esperienza con il tumore al seno. Il titolo è un programma: «Sopravvivere al marito quando si ha un cancro». «Ho scelto l’ironia per descrivere ciò che vedevo come paziente, a partire dall’atteggiamento degli uomini di fronte alla malattia delle mogli o compagne. Ma sa una cosa? L’editore non voleva mettere la parola "cancro" nel titolo. Io invece credo che si debba usare senza nasconderla».
Resta ancora il tabù, restano espressioni vecchie come «brutto male». A pensarci bene, nemmeno nel post di Elena Fanchini si cita direttamente il cancro. Ci hanno pensato tv e giornali a specificarlo. «È comprensibile, e a noi terapeuti viene insegnato a chiamare la malattia nella stessa maniera in cui la nomina il paziente. C’è chi la chiama infiammazione, ad esempio». Ad ogni modo, i social possono servire alla causa. «C’è bisogno di condividere per aggregarsi, per liberarsi dalla malattia, ma nella mia esperienza c’è anche la paura e il rischio di essere ghettizzati. Ho pazienti che mi dicono "io non voglio indossare il fazzolettino di riconoscimento". Credo che Facebook possa essere molto utile, ma va preso con le molle e stando attenti a come lo si usa, soprattutto quando si è fragili. Non dimentichiamoci che quando si sta male si tende a vedere solo ciò che si vuole. Si può ricevere incoraggiamento, ma si possono assorbire anche le paure altrui. Dopo la morte di Marina Ripa di Meana, con quella testimonianza molto forte, ho avuto a che fare con diversi pazienti in difficoltà».
C’è il rischio di entrare in una spirale negativa, insomma: «Condividere iniziative per stare insieme e notizie utili è positivo, penso ad esempio al corso di yoga per donne operate che vedo qui al Civile, temo invece quando vedo circolare consigli medici, articoli con pretese scientifiche senza fondamento». La cura Di Bella, con Facebook, avrebbe fatto macelli: «Guardi che c’è ancora chi parla del veleno dello scorpione cubano o dell’aloe vera come rimedio contro il cancro». È più facile che siano le donne a condividere, a fare comunità su questi temi e c’entra anche il fatto che, ad esempio, il tumore al seno sia un’esperienza in larghissima parte femminile. «Poco tempo fa un paziente uomo mi ha chiesto se ero a conoscenza di un gruppo di altri malati a cui potesse partecipare, ma è un caso raro. Di solito sono le donne a manifestare l’esigenza di stare assieme, di mettere in circolo le esperienze. Lo vedo anche in corsia: gli uomini leggono la Gazzetta, le donne tendono più a stare assieme oppure a gestire al telefono la loro vita all’esterno. Ironizzando, dico che siamo diversamente intelligenti».
Avere a che fare con queste comunità di persone malate non è facile, ma aiuta. Lo sa bene Concetta Bertoletti, bresciana a cui fanno capo due chat su WhatsApp e un gruppo Fb di altre donne attive nell’organizzazione della corsa benefica Race for the cure: «Mi sono ammalata a 25 anni, ora ne ho 32 - racconta Bertoletti -. Parlare di tutto apertamente mi ha aiutato moltissimo. Nei gruppi la regola deve essere: niente consigli medici, solo informazioni pratiche e racconti di esperienze. E bisogna fare attenzione a chi vive la malattia in maniera troppo negativa, possono avere una cattiva influenza. Ci sono rapporti, poi, che nascono in chat e diventano vere amicizie».
Di certo la dimensione social non esaurisce il bisogno di rapportarsi con gli altri nella malattia. L’esperienza dice che è importante calare questi rapporti anche nella vita reale. «Ho trovato un senso alla malattia nel lavoro per Komen Italia», spiega Rossana Serena, presidente del comitato regionale lombardo dell’associazione che si occupa della lotta al tumore al seno. Serena ha 48 anni, negli ultimi quattro ha capito quanto «la malattia sia aggregante, si creano legami molto forti, ci sono dei momenti in cui gli unici che ti capiscono sono quelli che stanno passando quella roba lì». L’esperienza di Francesca Del Rosso, morta di tumore al seno dopo aver scritto a lungo della sua malattia, pubblicando anche il libro «Wondy, ovvero come si diventa superereoi per sconfiggere il cancro», è stata importante per capire il valore della testimonianza. «Abbiamo una responsabilità, anche nei social. Si possono usare per urlare la propria condizione, ma io preferisco farlo con equilibrio». Facebook l’ha usato, sì, ma non è stato centrale nella sua esperienza. «Il mio obiettivo è abbattere il pregiudizio sulla malattia, dire che si può guarire, anche se non è certo facile, e sottolineare l’importanza della prevenzione. Per farlo, però, più che i social, preferisco lavorare per creare momenti di aggregazione capillare, dalla Race for the cure agli altri incontri che organizziamo durante l’anno».
Si può urlare, dunque, o si può cercare di costruire qualcosa anche di fronte a situazioni che a volte lasciano poche speranze. E qui torniamo a Barbara Baldassarri, che oltre al libro «Andrà tutto bene... Ho il cancro», ha partecipato alla mostra «Terra Ferita», incentrata su una serie di fotografie di donne malate di cancro al seno arrivate fino alla Camera dei Deputati, dopo diversi passaggi in gallerie e sale bresciane. L’iniziativa di Federica Lira, Kenan Hleihil e della fotografa Stefania Zambonardi è nata tre anni fa per parlare della situazione bresciana. I tumori, infatti, non piovono mica dal cielo: condividere le esperienze di malattia vuol dire anche parlare delle possibili cause, compreso l’inquinamento ambientale che caratterizza città e provincia. Le autrici sono così partite dai dati dello studio Sentieri, pubblicato nel 2014, in cui si parlava dell’aumento dell’incidenza dei tumori maligni a Brescia, in particolar modo per quanto riguarda melanomi della cute, linfomi non-Hodgkin, tumori alla mammella, al fegato e alla tiroide. Lo slogan era «Brescia apri gli occhi» e si puntava il dito in particolare sull’emergenza ambientale legata alla Caffaro. «Tre anni dopo l’inizio del progetto resta la consapevolezza di avere fatto qualcosa di significativo, nato in maniera molto spontanea. Però la gente ha la memoria corta, quindi di questi temi bisogna continuare a parlare», dice Stefania Zambonardi. Soprattutto perché lo stato dell’ambiente a Brescia è rimasto pressoché immutato da allora, con qualche piccolo passo in avanti nella vicenda Caffaro, anche se la risoluzione del problema dell’inquinamento da Pcb resta molto lontana. «Non ci illudevamo di vedere rapidi cambiamenti - spiega Zambonardi -. Credo però che l’iniziativa abbia dato un certo sostegno psicologico alle persone malate, che sia stata in qualche modo terapeutica. E Facebook è stato il modo migliore per veicolare il nostro messaggio».
Come si vede, la testimonianza può essere fatta in molti modi. C’è l’arte, la fotografia, ci sono i post online, le riunioni, momenti molto forti come la Race for the cure. E poi c’è anche chi decide di mettersi in gioco per parlare direttamente agli altri del proprio tumore. È il caso di Megy Hila diciannovenne di Orzinuovi che negli ultimi quattro anni ha dovuto affrontare un linfoma di Hodgkin. Assieme ad altri ragazzi e ragazze passati dal Civile, Megy è impegnata con «In viaggio per guarire», ideato dalla professoressa Anna Berenzi, docente nella sezione dell’Itis all’interno dell’ospedale, vincitrice lo scorso anno del Premio nazionale insegnanti. Il progetto prevede un tour nelle scuole per parlare delle loro esperienze: «Diciamo agli studenti che non bisogna lasciarsi spaventare, che bisogna aiutare se stessi e gli altri, cominciando a donare il midollo e facendo prevenzione». Anche per Megy i social hanno avuto un ruolo importante. «I mi piace danno forza - racconta -. Anche solo un like mi serviva come incoraggiamento. Sono stata molto in isolamento e a quel punto Facebook, ma anche WhatsApp, mi sono serviti per mantenere i contatti con gli amici». È stato il padre a convincerla ad aprire un profilo Fb: «Non ha mai voluto che ne avessi uno, ma quando sono iniziati i ricoveri in ospedale mi ha detto di farlo, pensando che mi sarebbe servito». E aveva ragione, il social network era diventato uno strumento per affrontare la normalità della malattia, il fatto che fosse parte integrante della vita di Megy. Un modo per affrontarla, senza enfasi, ma nemmeno senza far finta di niente. «Non ho mai messo la parrucca e ho pubblicato foto in cui ero pelata, ricevendo messaggi positivi - racconta -. Ancora oggi ho tra le foto del profilo quell’immagine, non la toglierò mai perché voglio ricordarmi come ero». Dai social alla vita reale, Megy crede che adesso la sua storia possa servire da esempio: «Il messaggio che voglio diffondere è di non lamentarsi, di non farsi prendere dalle sciocchezze che sembrano importanti e di vivere l’oggi, come ho imparato in questi anni».
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato