I sette anni di Napolitano al Quirinale

I sette anni al Quirinale di Giorgio Napolitano, scrupoloso nel lavoro e inflessibile nelle scelte.
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Un presidente mai sopra le righe, scrupoloso nel lavoro e garbato nei modi ma inflessibile nelle sue decisioni; un uomo tutto d’un pezzo del novecento, merce rara per questo sgangherato inizio millennio. Forse condannato a restare al Colle proprio per questa ragione. Giorgio Mapolitano, Giorgio "l’inglese" - un comunista d’esportazione, volto ideale per sdoganare all’estero il vecchio Pci - ha appena chiuso sette anni durissimi, tra il plauso ovvio degli amici e la stima costruita nel tempo degli avversari.
  
Ha accompagnato sette anni di storia repubblicana con il consueto stile che ha caratterizzato una vita intera dedicata alla politica. Primo dirigente comunista ad ottenere il visto per gli Stati Uniti, ammiratore della cultura anglosassone, ottima padronanza dell’inglese, Napolitano regna su un Quirinale che si erge sulle macerie della politica, forte e rispettato come mai nel passato, autorevole nella sua proiezione internazionale.
  
Un presidente maturo (88 anni a giugno) ma aperto al nuovo, ai diritti civili, progressista e convinto dell’universalità dell’etica e della morale. Un laico, seppure interessato ai problemi dell’anima come spiegò cercando di definire il profondo rapporto che costruì con papa Ratzinger. Apprezzato e stimato Oltretevere, si è battuto per la dignità dei detenuti nelle carceri e si è speso per valorizzare il ruolo delle donne. Ha rischiato personalmente nel delicatissimo caso di Eluana Englaro, resistendo alle spallate del centrodestra e agli anatemi degli ambienti cattolici più conservatori. Pragmatico, ha di recente lodato il «coraggio» di Berlinguer nell’aprirsi al compromesso storico del 1976, proponendolo come modello di larga intesa al Pd di oggi. E su questo, non c’è dubbio, non ha cambiato idea.
  
A volergli trovare un difetto bisogna riconoscere che dall’alto del Colle non seppe vedere quanto forte fosse il disgusto degli italiani per l’immobilismo dei partiti: il ciclone Grillo lo ha colto di sorpresa e fece l’errore di archiviare l’onda di protesta con una certa altezzosità. "Re Giorgio", come lo definì il New York Times accostandolo a Giorgio VI, il sovrano divenuto simbolo della resistenza britannica ai nazisti.
  
Il presidente di Napoli che ama Roma, sempre in compagnia della moglie Clio. Lui così poco "napoletano" nel senso popolare del termine: un presidente riservato che al Colle - al di là del suo stretto entourage - quasi non conoscono. Nè ciarliero nè estroverso, "Giorgio il migliorista" quasi vola nei corridoi del Quirinale dove - in verità - di rado appare. E quando appare molti lo temevano, per la sua scrupolosità che a tratti sconfina in una pignoleria incapace di delegare.
  
Primo presidente comunista, ha iniziato il settennato grazie all’astensione del Pdl tra le perplessità dei suoi "compagni". Una partenza difficile. Ma Napolitano ha impresso un ritmo bipartisan da fondista. Ha saputo, lentamente, conquistare anche i cittadini interpretandone i sentimenti più genuini, come quando lo si vide a Berlino gioire - sempre con quel suo understatement tutto british - per la vittoria degli azzurri.

Certo, re Giorgio non è quella forza della natura che fu Sandro Pertini. Il presidente che fece impazzire il Paese con uno scopone giocato con Bearzot, Causio e Zoff sull’aereo che riportava a casa gli indimenticabili campioni del mondo del 1982.
Il suo carattere riservato non gli ha impedito però di ingaggiare durissime battaglie, come nel 2011 con Berlusconi messo alle corde dalla speculazione e gli scandali sessuali. Un braccio di ferro che costrinse il cavaliere a fare un passo indietro lasciando palazzo Chigi a Mario Monti.
I critici parleranno di Repubblica presidenziale e di interpretazione estensiva delle sue prerogative. I sostenitori la giudicheranno una mossa determinante per evitare il collasso del Paese.
  
Nonostante questo, è stato spesso criticato proprio a sinistra, dove in tanti non hanno gradito il suo "via libera" a provvedimenti Pdl quali, ad esempio, il lodo Alfano. Filo conduttore della sua azione è stato il dialogo fra le forze politiche. I primi due anni li ha passati curando il traballante governo Prodi. Fino alla sua caduta e al ritorno del Cavaliere a palazzo Chigi. I successivi tre anni si consumano nel tentativo di arginare l’attivismo di Berlusconi.
  
Paradossalmente è proprio con la nascita del Governo tecnico (considerato il suo capolavoro politico) che si apre la fase più difficile: evitato il burrone della crisi, l’Italia non riesce a schivare quello della recessione. L’immagine del governo "tecnico" a poco a poco si sbriciola. Il Pdl lo molla e Monti si dimette, contro il parere del presidente. Non solo, decide di "salire in politica". Napolitano, inutilmente, lo sconsiglia. I loro rapporti personali escono incrinati. Poi, i risultati elettorali, lo stallo politico e le critiche per l’iniziative dei saggi, hanno regalato a Napolitano una conclusione «amara» del suo primo settennato.

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