I piedi (gravi o acuti) che cercano libertà

La solidità degli arti inferiori e la verticalità dell’azione
Piedi - Foto Natalia Elena Massi © www.giornaledibrescia.it
Piedi - Foto Natalia Elena Massi © www.giornaledibrescia.it
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Alla base del nostro essere animali eretti - del nostro stare in piedi, del nostro millenario cammino di elevazione - ci sono proprio loro. I piedi. Ma pur scegliendo di usare un’unica sillaba «polifunzionale», il nostro dialetto è benissimo in grado di farci sentire quando sta parlando dei nostri arti inferiori o piuttosto del nostro essere verticali.

Nel primo caso ricorre all’accento grave («G’hó caminàt tre ùre e adès ma fa màl i pè...»), nel secondo al suo parente acuto («Gh’éra gnà ’na scàgna e g’hó düsìt restà ’n pé...»). In realtà, a volte parlare di piedi ci aiuta anche a parlare della persona e della sua condizione (di chi non ha problemi economici si dice che «el g’ha mai vìt frèd ai pè»). Così come alludere alla posizione verticale ci aiuta a dar conto di una attività in corso («El g’ha mitìt en pé un mulì a vènt»). Spesso i nostri piedi si meritano nomignoli informali e affettuosi. Come quando li chiamiamo piòte («Faró aparì de fàla töta a piòte» scrive la poetessa Elena Alberti Nulli) oppure óche («Fa’ nà le óche» è l’invito pressante a muoversi). In Gaì (il linguaggio cifrato dei pastori) il piede è il paù e le scarpe le paùne.

Nell’orizzonte artigiano possono aprire a panorami molto diversi tra loro: dal negativissimo «laorà coi pè» all’onorevole «fàga i pè ale mòsche». Ma l’approdo più felice cui i nostri affidabili arti inferiori possono ambire è quello di una - anche solo saltuaria - liberazione dalla condizione di reclusi. Non sempre si può fare, ma ognuno conosce la felicità di andà en giro en penüt. Più che una pédicure, una condizione dello spirito.

 

 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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