I genitori le avevano combinato le nozze, chiesta la condanna di 5 anni

Madre e padre di una 24enne di origini pakistane devono rispondere di reato di induzione al matrimonio: è il primo caso a Brescia
Foto © www.giornaledibrescia.it
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Il pubblico ministero di Brescia Erica Battaglia ha chiesto la condanna a 5 anni per il padre e la madre di una ragazza di 24 anni di origini pakistane che la famiglia voleva far sposare in patria in un matrimonio combinato. Chiesta la condanna a cinque anni e un mese per il fratello accusato di maltrattamenti e un episodio di lesioni.

I genitori della giovane devono anche rispondere del reato di costrizione o induzione al matrimonio ed è il primo caso a Brescia da quando è entrato in vigore l’articolo 558 bis del codice penale, che punisce chi organizza nozze combinate. In questo caso si parla di tentativo di far sposare la ragazza che ha fermamente espresso il suo dissenso. «Parliamo di persone schiave dei loro retaggi culturali. Emerge il poco rispetto nei confronti della libertà personale delle donne» ha spiegato il pm in aula. «Mi dissero che se non avessi fatto come dicevano loro avrei fatto la fine di Sana Cheema» aveva raccontato in aula la presunta vittima.

Il riferimento è a Sana Cheema, la giovane di origini pakistane, cittadina italiana con residenza a Brescia, che secondo le autorità italiane, ma non quelle pakistane, sarebbe stata uccisa in patria dai parenti perché avrebbe rifiutato le nozze combinate. Durante il processo sono emersi diversi presunti episodi di maltrattamenti nei confronti della 24enne e delle tre sorelle. «Ad ogni disubbidienza rispetto alle regole che famiglia e religione le imponevano veniva maltrattata fisicamente e psicologicamente. Agli atti ci sono referti di una serie impressionante di accessi al pronto soccorso delle figlie per incidenti domestici» ha spiegato in aula il pm durante la sua requisitoria. In giornata è attesa la sentenza.

La difesa chiede l’assoluzione: la valutazione della prova rispetto alle accuse mosse si deve fare in riferimento alla condizione culturale in cui sono avvenuti i fatti al centro del processo. Che queste ragazze non stessero bene è fuori discussione, ma perché cresciute in Italia con regole diverse da quelle dei genitori rimaste alle regole del Pakistan. Non perché subivano violenza.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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