I dipendenti: «Teniamo la città sicura, ma siamo invisibili»

I lavoratori della Caffaro: «Il personale è al minimo, nessuna ci incontra. Ci coinvolgano nel progetto di bonifica»
Sindacati e dipendenti accanto allo striscione che recita: «I lavoratori non sono rifiuti» - © www.giornaledibrescia.it
Sindacati e dipendenti accanto allo striscione che recita: «I lavoratori non sono rifiuti» - © www.giornaledibrescia.it
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Paolo resta in piedi tutto il tempo, appoggiato allo stipite della porta: è sul confine, a solo un passo dall’essere dentro o fuori la stanza. E così in un’immagine, senza neppure rendersene conto, rappresenta la sensazione che tenta di descrivere a parole: «Da anni veniamo qui in Caffaro, al lavoro, senza sapere se questo cancello sarà aperto o chiuso, senza avere garanzie sul futuro». Ma a guardare, se quel cancello era aperto, lui e i suoi colleghi in servizio ormai da decenni nella cittadella industriale di via Nullo, ci sono sempre andati. Raffaele invece si siede: d’altronde, quella fabbrica è parte della sua vita, per certi versi si sente quasi a casa. «Noi siamo qui, siamo sempre stati qui. Il punto vero, però, è che a parole tutti lo sanno e parlano di noi in tv, ma nella realtà, alla prova dei fatti, non è mai interessato a nessuno...».

Quelle frasi, Raffaele le pronuncia senza neppure un velo di rabbia, ma guardando dritto negli occhi chi gli sta di fronte e non nasconde la fatica di una realtà che si porta sulle spalle mese dopo mese, anno dopo anno. Testa alta, occhi stracolmi di ricordi, l’espressione di chi di sassolini da togliersi dalle scarpe ne avrebbe da riempire una spiaggia. Sceglie di non farlo, non è lì per quello. Non è mai stato lì per quello. Ogni giorno si alza, con i colleghi raggiunge l’epicentro del dibattito cittadino e insieme stanno alla barriera. Perché farla funzionare, significa tenere al sicuro la città, significa garantire che quella «diga» composta da un sistema di pozzi non lasci scivolare via, di colpo, un’ondata di veleni cullati da anni di industria chimica. Significa, anche, non lasciare incustodito uno spazio immenso che chi si è formato lì conosce come le sue tasche. Ai tempi d’oro, a prendere servizio erano in 450. Poi, nel 2001, il «caso Pcb» è esploso: loro c’erano e quei giorni se li ricordano bene. C’erano anche nel 2011, quando dopo essersi assestati sui 110 operai, con il passaggio della società ad Antonio Todisco, la forza lavoro è quasi dimezzata: una sessantina i contratti conservati. Oggi sono rimasti in tredici. E chi deve descriverli li chiama «i sopravvissuti». Alla barriera, almeno in sei, ci stanno 24 ore su 24, sette giorni su sette, con tanto di reperibilità alla quale si aggiungono i passaggi notturni della vigilanza. Gli altri si occupano di seguire le ditte che devono rilasciare le certificazioni per le manutenzioni indicate dall’Arpa e di cui Caffaro Brescia si sta facendo carico. Parallelamente, mano a mano che la Procura dissequestra spicchi dell’area, procederà il lavoro di smantellamento degli impianti. Raffaele non lo nasconde, a volte è difficile: «In sostanza stiamo distruggendo e disintegrando ciò che per anni abbiamo costruito».

Di lavorazioni non ce ne sono più da un anno e mezzo, da quando cioè la produzione ha fermato i macchinari. Il valzer delle incertezze, però, per chi come i tredici sopravvissuti scandiva la propria giornata al ritmo del suono della sirena Caffaro, prosegue. «Mercoledì si è tenuto il primo degli incontri per la deroga della cassa integrazione, che dovrebbe durare fino alla fine di febbraio» spiega la sindacalista Cgil Patrizia Moneghini. Il passaggio non è banale: i tredici dipendenti sono (letteralmente) l’unico presidio di garanzia della città, un presidio che sta tenendo la barra ferma da anni, pur trovandosi in un limbo esasperante nell’indifferenza delle istituzioni. A testimoniarlo c’è il carteggio raccolto nel dossier di Moneghini: cumuli di fogli, testimoni di richieste di audizione e incontri. Ma la cartelletta delle risposte è ancora vuota. «Sono anni che leggiamo o ascoltiamo dichiarazioni di politici: dicono che siamo importanti, promettono ascolto e un coinvolgimento diretto. C’è tuttavia un particolare non indifferente: qui, non si è mai visto nessuno. Neppure i comitati ambientalisti che a volte si fotografano all’ingresso». Gli unici incontri sono stati con gli assessori comunali Marco Fenaroli e Miriam Cominelli. Cosa vogliono dire alla politica che ha il potere di decidere i tredici sopravvissuti? Sempre la stessa cosa: «Noi siamo i primi a sperare nella bonifica - chiariscono a scanso di equivoci -. Il punto però è che la barriera idraulica va mantenuta in funzione finché il risanamento non sarà completato e questo lo hanno ribadito tutti gli enti. Ma adesso, a forza di essere considerati invisibili e senza avere prospettive, la forza lavoro è ridotta all’osso. E il rischio, se non ci coinvolgono presto nell’organizzazione complessiva del progetto, integrandoci, è che di personale disponibile a restare, in queste condizioni, non ce ne sia davvero più». L’appello è tra l’accorato e lo sconsolato, ma c’è pure una preoccupazione sincera per la città.

La domanda sorge spontanea: davvero nessun altro sarebbe in grado di fare funzionare la barriera? Ni. Lo spiega bene Raffaele, con un esempio semplice ma di un’efficacia disarmante: nella cittadella c’è un groviglio di edifici, di condotti e di cisterne. «Se un tubo si rompe, qui dentro, bisogna sapere dove cade l’acqua o la sostanza in questione. Perché se cade in un punto è un conto, e si può stare tranquilli, ma se cade in un altro la faccenda cambia e anche di molto». Paolo, Raffaele e le altre undici sentinelle (forse rimaste invisibili, ma sicuramente fondamentali) quei condotti sanno dove originano e dove scaricano. Gli altri no. Del resto, mantenere Brescia al sicuro è stata ed è tuttora la missione della dei tredici sopravvissuti. I custodi della città.

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