I «Cocci di Covid» delle infermiere, per non scordare le ferite
No, non è andato tutto bene: come un solco scavato profondo nella pelle, tale pensiero è indelebile negli occhi (e nell’animo) di chi ha vissuto in prima persona l’emergenza coronavirus. Tra i tanti, ci sono alcune infermiere dell’ospedale Civile di Brescia che hanno voluto sottolineare questo concetto attraverso la fotografia.
Così, coinvolgendo le colleghe Melissa Ricci, Elisa Bonardi, Raffaella Sorgente ed Elena Chiminelli, nei giorni scorsi Angela Chiodi e Michela Spagnoli hanno svestito il camice e dato forma al progetto «Cocci di Covid» e #nonèandatotuttobene. Nel set nella galleria L’Altra Arte di Bagnolo Mella di Delfina Platto e Daniela Braga, si sono messe a nudo, facendo trasparire davanti all’obiettivo della fotocamera l’enorme sofferenza.
Dolore ma anche supporto, coraggio, difficoltà: elementi di cui si sono impregnate le stanze del reparto di Cardiologia. Quelle corsie, che le ragazze considerano una sorta di casa («quante ore trascorse là dentro», dicono) le hanno rese una famiglia. Le stesse impressioni emergono nello sguardo fissato da un click, realizzato su uno sfondo nero, quasi ad evocare il periodo di oblio degli ultimi mesi.
«Sono cicatrici da nascondere al paziente: è necessario mostrarci forti - racconta Angela -. Dietro, invece, sappiamo che la stanchezza, la potenza del virus, i turni infiniti, oltre alla tensione e l’impossibilità di incontrare i propri cari per paura di contagiarli: ogni cosa contribuisce a logorarti. Quando le brutte notizie si susseguono rapide, capisci che non è andato tutto bene, come recita la scritta che ci siamo dipinte sulla schiena».
Un messaggio diverso, in controtendenza rispetto agli arcobaleni alle finestre come segno di speranza. «Corrisponde comunque alla realtà: triste, ma veritiera - prosegue Angela -. Qualcuno è stato fortunato, altri meno: a loro va soprattutto il nostro abbraccio». E, sempre nella stessa direzione, la seconda parte del progetto, ispirata alla cultura giapponese: trasformarsi in statue spezzate e risanate. «È stato un periodo complicato, dove ci siamo sentite a pezzi - spiegano -. E quando qualcosa va in frantumi, solitamente lo si aggiusta, rendendo il danno invisibile. Al contrario noi, come l’arte del kintsugi, abbiamo cercato di riparare le crepe con l’oro, evidenziandone le ferite, impreziosendole. E da ogni ferita entra la luce, per coloro che hanno perso una persona cara».
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato