I calzini di Napoleone come armi gandhiane
È proprio una vena aurifera ricchissima quella nella quale ci siamo messi a scavare: il filone delle similitudini (lònc come la fàm, catìf come ’l tòsech, svèlt come un pès...) che da un paio di settimane vede i lettori di Dialèktika frugare nelle soffitte polverose della memoria per trarne espressioni e modi di dire. Una vena che mostra - una volta di più - come fra gli strumenti migliori a disposizione della parlata bresciana vi fossero concretezza e ironia.
Segnalo anzitutto i contributi paralleli di Massimo e di Angelo, che a proposito di drìt come un füs mi correggono ricordando che dritti dritti volavano fendendo l’aria i «fusi» di carta arrotolata (e affusolata, appunto) che i bambini soffiavano con le cerbottane. «Qualche volta i più maligni - ricorda Massimo - ci mettevano anche degli spilli in punta. Erano dolori».
Addirittura languida, personalmente, trovo l’espressione pégher come la sòn (attenzione, in dialetto il sonno diventa femminile!) e sorridentemente efficace la similitudine sfürtünàt come ’n cà en césa (va bene l’amore per il Creato, ma un quadrupede in un sacro tempio i nostri nonni l’avrebbero immediatamente scacciato in malo modo).
Gandhianamente ironico, infine, suona alle mie orecchie il modo di dire envèrs come un calsèt. Ora immaginatevi che qualcuno vi venga incontro rosso di rabbia e focoso di aggressività, quindi paragonatelo ad un calzino esausto e rivoltato: la sua minaccia risuonerà subito meno seria. Peraltro, «se l’è envèrs la ga pasarà». Perché - come ricordava la mia nonna - «la ghè pasàda apó a Napuliù...».
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