«Ho fotografato il dramma di Brescia per il Washington Post»

Il fotoreporter Gianluca Panella per tre settimane ha lavorato sulle ambulanze della Croce Bianca
Lo scatto simbolo del reportage di Gianluca Panella per il Washington Post
Lo scatto simbolo del reportage di Gianluca Panella per il Washington Post
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Sull’ambulanza per lavoro ci era già salito. A Gaza, nell’estate del 2014, aveva visto scorrere fiumi di sangue durante le corse disperate con i feriti a bordo. Stavolta non c’erano operazioni militari in corso, non c’erano missili che esplodono su una delle zone più densamente popolate del mondo con l’inevitabile effetto di morte e devastazione. Stavolta c’era da documentare la guerra contro il coronavirus, ugualmente carica di lutti e paura, e Gianluca Panella, fotoreporter indipendente specializzato nel reportage sociale, ha deciso di farlo a Brescia: il fronte era qui da noi e lui s’è «arruolato» nella Croce Bianca, «embedded» per tre settimane.

Il risultato è una toccante storia pubblicata sulla prima pagina del Washington Post di giovedì 23 aprile (e online). Gli scatti di Panella, accompagnati dal testo di Chico Harlan e Stefano Pitrelli, hanno documentato la morte in casa di Carmelo Marchese, 93enne spirato nella notte fra il 27 ed il 28 marzo dopo una settimana di febbre e di cure a domicilio. Dopo la scelta dei familiari, coraggiosa e tremenda, di non portare il loro caro all’ospedale, in quei giorni intasatissimo: il rischio sarebbe stato quello di non vederlo più, di convivere con l’angoscia che lui se ne sarebbe andato in un’insopportabile solitudine.

  • Il fotoreporter ha lavorato sulle ambulanze bresciane
    Il fotoreporter ha lavorato sulle ambulanze bresciane
  • Il fotoreporter ha lavorato sulle ambulanze bresciane
    Il fotoreporter ha lavorato sulle ambulanze bresciane

«Era quello che volevo fare - racconta Panella - vale a dire un lavoro più intimo, privato. Quando sono arrivato a Brescia, il 26 marzo, si era in una fase in cui le notizie sull’emergenza coronavirus erano fredde, fatte soprattutto di numeri, statistiche, curve e diagrammi. Io volevo dare nome e cognome a quei numeri, contrastando così quella tendenza alla spersonalizzazione del racconto. In quei giorni le chiamate al 112 stavano già calando, così come il numero dei malati portati al Pronto soccorso: succedeva infatti che molte persone non chiamavano i soccorsi, cercavano, finché proprio non fosse impossibile, di restare a casa per evitare di andare in ospedale e magari non incrociare più gli occhi dei loro familiari.

«Arrivando nelle case dei malati - prosegue il fotoreporter fiorentino - il mio scopo non era solo fare delle foto, ma cercavo anche un approccio con il paziente e con i familiari per avere un contatto, da approfondire nei giorni successivi. E la cosa più sconcertante era che sfoltivo il mio taccuino a velocità incredibile: nel giro di 24-48 ore mi dicevano che il loro caro non ce l’aveva fatta e di intervento in intervento mi sono reso conto che io stesso avevo sviluppato una sorta di "occhio clinico", mi rendevo cioè conto di chi non avrebbe sconfitto la malattia». Difficile, anche emotivamente, lavorare in questo contesto: «Arrivando a Brescia - riflette Panella - non avevo un’idea precisa di quello che avrei trovato. In passato mi sono occupato di conflitti, crisi ambientali, tutti ambiti in cui il tessuto sociale viene provato fortemente. Sono stato a Gaza, in Africa ho documentato un’epidemia di colera, ma in Italia una situazione d’emergenza così non l’avevo mai vissuta, né personalmente né professionalmente. Ecco, vedere una tragedia simile nel tuo Paese ha un effetto più impattante».

L’ha vista e documentata passando tre settimane, di giorno e di notte, sulle ambulanze: «Ringrazio la Croce Bianca che mi ha accolto con grande disponibilità. A Brescia ho visto una grande reazione all’emergenza. Nelle mie esperienze passate ho sempre notato che nei momenti di forte crisi si è in contatto con tutta una serie di sentimenti e che questi sentimenti si accentuano. Anche stavolta è stato così. Ho visto volontari, medici, infermieri e tanti altri che si sono completamente dedicati, si sono resi conto che in questo momento c’è un bisogno più grande del bisogno del singolo e si sono sacrificati. Ho saputo anche di chi, legittimamente, ha fatto un passo indietro, magari perché a casa aveva figli piccoli o parenti anziani. Ancora: qua e là qualcuno ha violato le norme del lockdown, come quei bar-ristoranti che servivano cene a serrande abbassate; all’opposto, trattorie e ristoranti hanno lavorato gratis per portare pasti a medici e volontari. Insomma, si passa dall’eroismo alla paura più gretta che ti fa chiudere in te stesso o alla scorciatoia del furbetto. Tutte reazioni umane».

Quell’umanità che gli scatti di Panella dal fronte del dolore sanno trasmettere, tanto da conquistare uno dei giornali più importanti del mondo: «La foto del signor Carmelo ormai senza vita sorretto dal nipote e dai volontari è stata paragonata alla deposizione di un Cristo, tanta è la sua forza, una forza che ha convinto anche la direzione del Washington Post. Una forza che temevo potesse urtare i familiari, per questo gliene ho parlato e loro hanno detto di essere d’accordo con la pubblicazione: nessun altro momento, per loro, sarebbe stato più brutto di quello che avevano vissuto quella notte». Quel dramma intimo e personale in cui tante famiglie bresciane, purtroppo, si possono riconoscere.

 

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