«Ho accudito Francesco come avrei fatto con mio nonno»

La vicinanza umana ai pazienti nei momenti più difficili dell'emergenza coronavirus
La tenda triage del Civile - Foto Gabriele Strada /Neg © www.giornaledibrescia.it
La tenda triage del Civile - Foto Gabriele Strada /Neg © www.giornaledibrescia.it
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Prosegue la pubblicazione delle testimonianze di «Cuori in prima linea», l'iniziativa promossa da Giornale di Brescia e IntesaSanPaolo: abbonamenti trimestrali gratuiti al GdB in versione Digital e la possibilità riservata sempre al personale sanitario che ha affrontato la pandemia in tutta la sua durezza - professionale e psicologica - di raccontare le storie vissute durante la pandemia per farne un prezioso patrimonio di testimonianze da preservare.

Le storie possono essere inviate all'indirizzo email cuorinprimalinea@giornaledibrescia.it.

Di quei giorni in un reparto Covid, ricordo solo il buio. Come se avessi lavorato solo di notte. Eppure so bene che non è così. Fuori c’era un bel sole. Un sole caldo di marzo, giornate terse, ma nel ricordo solo il buio, quello di un tunnel di cui non si intravedeva la fine. Arrivo al lavoro in un pomeriggio qualunque. Il mio reparto è stato chiuso, ci sono i pazienti da trasferire o dimettere in tutta fretta perché la bestia sta arrivando anche da noi. La Cina non è più una realtà lontana, da oggi la Cina siamo noi. Vengo avvisata che mi hanno trasferita in un altro reparto. Covid? Non Covid ? Chi lo sa. Sarò in grado? È vero, siamo infermieri ma non tuttologi e trovarsi in una realtà diversa senza sapere cosa fare o dove mettere mano per trovare i materiali che ci servono è difficile sia materialmente che psicologicamente. Ma siamo in guerra, ci si fa coraggio e si combatte. Non nascondo che è stata dura più di quanto non voglia ammettere a me stessa e me ne accorgo dal fatto che non riesco a parlarne o scriverne senza piangere. È una ferita ancora aperta. Ricordo il terrore la prima volta che mi sono «vestita», il rumore continuo dei ventilatori, gli allarmi dei monitor, dei saturimetri, delle pompe di infusione.

 Ricordo il senso di impotenza, la frustrazione, la stanchezza per le tante ore con mascherine che tagliavano la faccia o i tagli sulle mani per l’uso dei disinfettanti ma soprattutto ricordo loro, i nostri pazienti. Tante le storie da raccontare, ognuna importante, ognuna diversa. Voglio ricordare soprattutto Francesco, 80 anni. Arriva da noi con i soliti sintomi: febbre, fiato corto, non mangia, ha perso la moglie pochi giorni prima ma forse ancora non lo sa. Ha la mascherina per l’ossigeno ma riesce a chiedermi se ho visto qualcuno andare a casa vivo. Mento. Non posso dirgli che la persona che occupava quel letto qualche ora prima di lui, adesso è in un sacco nero: «Certo Francesco, ci vuole tempo ma si guarisce». Francesco non è guarito. Nei giorni successivi gli ho sistemato la maschera che gli piagava il naso, gli ho asciugato una lacrima, gli ho dato da bere, gli ho tenuto la mano per non farlo sentire solo anche se non era più cosciente e ho recitato per lui benedizione degli ammalati. Ho fatto per lui quello che avrei fatto per il mio papà o il mio nonno. E così hanno fatto tutti quelli che in quei terribili giorni si sono presi cura degli ammalati. Abbiamo cercato di essere la loro famiglia. Il lavoro fatto dagli operatori sanitari è stato grandioso, in tutti i reparti e mi rende orgogliosa di appartenere a questa categoria spesso bistrattata. Quando c’è stato bisogno noi eravamo lì, non ci siamo tirati indietro e abbiamo dato il massimo. Grazie a tutti. Un bacio a Francesco.

Cristina Sereni - Infermiera all'Ospedale Civile di Brescia

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