Ema e l'accusa allo spacciatore: ecco perché
La Procura di Brescia chiederà il rinvio a giudizio nei confronti del 20enne che avrebbe venduto lo stupefacente al giovane Emanuele Ghidini, morto nelle acque del Chiese a Gavardo la notte del 24 novembre del 2013.
La droga, nello specifico marijuana e droga sintetica, fu ceduta al ragazzo durante una festa a Castrezzone di Muscoline. L'autopsia ritrovò tracce di allucinogeno e cannabis nel corpo di Emanuele.
Il sostituto procuratore Isabella Samek Lodovici si appresta a chiedere il rinvio a giudizio del 20enne italiano che fornì la droga ad Emanuele. Secondo il pm se non avesse assunto quelle sostanze e se quindi nessuno gliele avesse fornite il 16enne non si sarebbe lanciato nel fiume. Per l'accusa è morte come conseguenza di altro reato (la morte non era nelle cose, è stata la droga a portarlo al gesto estremo).
A spiegarci meglio in che cosa consiste l'accusa "morte come conseguenza di un reato" l'avvocato penalista Cristina Guerrini.
"Tale reato si configura quando da un fatto previsto dalla legge come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dall’agente, la morte o la lesione di una persona.
Quindi la procura, nel corso del processo, dovrà provare che la condotta di spaccio di sostanza stupefacente, di per sé dolosa, abbia determinato una conseguenza non voluta dallo spacciatore, ossia la morte. Il giudice dovrà quindi accertare se la morte dell'assuntore di sostanza stupefacente sia imputabile alla responsabilità di chi la droga gliel’ha ceduta.
Il nodo centrale sarà pertanto stabilire non solo il nesso di causalità materiale tra la cessione della droga e la morte non interrotto da fattori eccezionali sopravvenuti, ma individuare in base a quali criteri si possa chiamare a rispondere lo spacciatore dell’evento- morte non voluto, determinato dal reato doloso e che la morte sia in concreto rimproverabile allo spacciatore" conclude l'avvocato.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato