Elena Saik: «Con la mamma inferma sotto le bombe»
Un grido di paura e speranza dall’orrore della guerra. Un grido capace di scuotere le corde sensibili di ciascun cuore. Lo lancia Elena Saik, musicista ucraina di chitarra, domra e mandolino diplomata al Conservatorio di Brescia. Di casa nella nostra città dal 2016, era rientrata in patria mesi fa per assistere la mamma resa inferma da un ictus. I bombardamenti russi le hanno sorprese a Sjevjerodonec’k, nell’est del Paese. Dopo giorni di gelo, schegge e terrore, sono riuscite a raggiungere con un viaggio in treno durato 32 ore una parente nella zona ovest, a Ivano-Frankivs’k: «Qui siamo più al sicuro - ci scrive -, ma sto cercando il modo di tornare a Brescia».
La fuga delle bombe
Elena è nata in Russia (Rostov sul Don) e ha vissuto nel Donbass. Parla il russo e l’ucraino. Si è laureata al Conservatorio di Donetsk (con una tesi in lingua ucraina) e poi, nel 2019, al Marenzio. Ha rappresentato il suo Paese in numerosi concorsi internazionali e si esibisce con l’amica Daria Petrova da 13 anni, anche sulle navi da crociera. A fine 2021 ha raggiunto la mamma a Sjevjerodonec’k. Avrebbe dovuto fermarsi poco, ma l’evidente minaccia di guerra l’ha spinta a non andarsene per non lasciarla sola. Il 24 febbraio è stata svegliata dalla telefonata della zia che la informava degli attacchi. Poco dopo «ho sentito i bombardamenti su città e aeroporto. Nella paura ho trascinato il materasso della mamma nel corridoio: lì, tra due muri portanti, sarebbe stata più al sicuro. Ho fatto una corsa al supermercato per acquistare cibo. Poi nel quartiere si è spento il riscaldamento e, qualche giorno dopo, siamo rimasti senza Internet, tivù e notizie sulla guerra».
Elena ha valutato di nascondersi nel sotterraneo della scuola insieme a centinaia di persone, ma, vista la disabilità della mamma, non c’erano le condizioni per farlo. Il 2 marzo «ho sentito un ruggito assordante e il rumore dei vetri che si rompevano. Le schegge di una bomba, finite sino all’ottavo piano del palazzo, hanno bucato i fornelli della cucina. L’edificio tremava sotto i colpi dell’artiglieria. Così aprivo la porta e stavo nel blocco scale con i vicini, tenendo d’occhio la mamma indifesa in casa e accarezzando il cane impaurito». Dalla Russia un parente «continuava a fornirmi informazioni false: diceva che la nostra città si era consegnata all’esercito russo senza combattere». Il 3 marzo il palazzo accanto al suo è stato distrutto, un volontario che conosceva è stato ucciso e «ho capito che bisognava scappare. Dopo venti telefonate senza risultato, ho visto nel cortile un pulmino della polizia, sono corsa fuori e ho gridato. Dieci minuti dopo la mamma era sdraiata su quel mezzo. Con me avevo solo il mandolino e i documenti».
Gli spostamenti con la sedia a rotelle
Arrivate alla stazione di Lysychansk «ho trascinato la sedia a rotelle su neve e pozzanghere. La stazione era piena di gente, la biglietteria era stata chiusa 30 minuti prima della partenza: non c’erano posti e i miei appelli ai soldati sembravano inutili. Credevo di non avere chance di raggiungere le porte della carrozza, poi sono apparsi tre uomini e mi hanno aiutato». Il convoglio era stracolmo e trovare un angolo, tra due carrozze, per la sedia a rotelle è stata un’impresa. Al freddo hanno viaggiato per 32 ore. Ora si trovano nell’est.
Ogni giorno Elena sente Daria e Roman Oleg, designer di Brescia tornato in Ucraina per arruolarsi (si è iscritto al registro militare e, in attesa di risposte, fa la guardia volontaria al check point di Leopoli). Lui ci ha aiutato a tradurre il racconto della musicista. «L’esercito russo - questo il grido di Elena - sta bombardando furiosamente la mia città e l’Ucraina. Muoiono i civili, compresi quelli nati in Russia, che parlano russo o hanno famiglie in Russia. Senza l’aiuto dell’Europa e del mondo, senza l’isolamento totale della Russia e senza la chiusura del cielo dell’Ucraina stiamo perdendo migliaia di vite».
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