Dalle rondinelle alle notti magiche: l'addio a Azeglio Vicini
Per andarsene ha scelto i giorni della merla, i più freddi dell'anno, lui che, con una Nazionale tutta cuore, orgoglio, freschezza e passione, aveva scaldato i cuori di milioni di italiani che, mai come allora (unico precedente a Messico '70), si legarono ai colori azzurri. Erano i giorni di Italia '90, quelli delle notte magiche cantate da Edoardo Bennato e Gianna Nannini, tornate alla memoria in queste ore in cui molti stanno omaggiando Azeglio Vicini, scomparso nella notte dopo una lunga malattia. I funerali sono previsti domani alle 16.30 in Duomo, a Brescia, mentre sui campi da calcio sarà osservato un minuto di silenzio in suo onore, sia stasera in Coppa Italia, sia nelle partite di campionato del fine settimana.
Vicini, nato a Cesena il 20 marzo 1933, viveva in città da cinquant’anni, da quando cioè era entrato nel Brescia come giocatore prima (1963-1966) e come allenatore (1966-1968). Entra nella storia come il ct dal volto umano, dai modi garbati e gentili, dagli indiscussi meriti: primo fra tutti quello di avere ricostruito una Nazionale uscita con le ossa rotte dal Mondiale dell'86 in Messico, dove si era presentata con il titolo in tasca, ma troppo molle per potersi opporre a Platini e Maradona, re indiscusso dell'Azteca. Bearzot abdicò ingloriosamente e Vicini ne raccolse il testimone, portandosi dietro una voluminosa esperienza federale.
È stato l'ultimo ct a muovere i primi passi a Coverciano, assistendo al fianco di Bearzot, l'avventura di Ferruccio Valcareggi a Messico '70. Prima di sedersi sulla panchina della Nazionale maggiore allenò pure l'Under 21. Proprio quest'ultima rappresentativa gli diede le prime soddisfazioni personali, sfiorando la conquista dell'Europeo di categoria nel 1986, dove si arrese alla Spagna del paratutto Ablanedo, pupillo di Luis Suarez. All'andata, sul terreno del Flaminio, finì 2-1 per gli azzurrini, al ritorno di Valladolid gli spagnoli ricambiarono la cortesia, poi salì in cattedra Ablanedo e parò tre rigori.
I tiri dal dischetto gli hanno negato uno e forse due trofei. Sempre ai rigori, ma questa volta a Italia '90, in un San Paolo di Napoli diviso dalle parole di Maradona alla vigilia («... l'Italia pensa al sud solo nei momenti del bisogno»), alla squadra di Vicini venne negata la finale di Roma contro la Germania. Caniggia replicò a Schillaci e, dal dischetto, Sergio Goycoechea ipnotizzò prima Donadoni, poi Serena. Addio Mondiali, che si sarebbero chiusi fra rabbia, disperazione e rammarico, ma soprattutto con la consapevolezza di una superiorità inespressa. Un'occasione unica.
Quella delusione segnò Vicini e anche il suo futuro sulla panchina azzurra. Il suo merito principale fu quello di avere contribuito però a valorizzare una generazione di calciatori di altissimo livello e di essere riuscito a trasformare in squadra un'accozzaglia di campioni, come egli stesso andava ripetendo. Vialli (ma in azzurro esordì grazie a Bearzot), Mancini, Donadoni, Ancelotti, Baresi, Bergomi, Zenga, Maldini, Roberto Baggio, Schillaci, sono stati lanciati proprio dal mite Azeglio, che ricordava più Valcareggi che Bearzot, ma aveva imparato la gestione degli uomini prima che dei calciatori un po’ dall'uno e un po dall'altro. «Uccio» e il «Vecio» gli insegnarono che, prima della tattica e della tecnica, c'è l'uomo. Lasciò la panchina azzurra a Sacchi, dopo avere fallito la qualificazione all'Europeo del 1992, vinto dalla Danimarca in Svezia, ma lasciò al successore un patrimonio di talenti e umanità di assoluto rilievo.
«Ho raggiunto un bel traguardo - disse in occasione della festa per i suoi 80 anni - sono soddisfatto della mia vita». Un solo grande rammarico, quel mondiale italiano perso in semifinale: «Avremmo meritato di vincerlo, siamo stati sfortunati».
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