Dal Civile a Kabul: infermiere parte «perché là c’è più bisogno»

Roberto Guerrieri lascia per sei mesi l’ospedale e se ne va in Afghanistan con Emergency
L’infermiere Roberto Guerrieri lavora al Civile - © www.giornaledibrescia.it
L’infermiere Roberto Guerrieri lavora al Civile - © www.giornaledibrescia.it
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«Sapete, avere un infermiere o un medico in meno in Afghanistan significa condannare a morte migliaia di persone. La differenza tra noi e i Paesi a basso reddito è abissale». Basta questa spiegazione per capire come mai Roberto Guerrieri, infermiere da cinque anni in Unità coronarica all’Ospedale Civile, ha deciso di lasciare tutto per andare a lavorare sei mesi nelle strutture sanitarie di Emergency in Afghanistan.

PartIto stamattina da Milano, con un volo diretto a Istanbul. Dalla città sul Bosforo si imbarcherà di nuovo per raggiungere Islamabad e dalla capitale del Pakistan l’ultimo volo di circa un’ora e mezza su un aereo delle Nazioni Unite perché da agosto l’aeroporto di Kabul è chiuso ai voli civili. «Arriverò domenica» dice

La sua voce non tradisce emozioni, sostenuta dall’adrenalina degli ultimi preparativi. Solo quando parla di suo figlio, di appena sette mesi, lascia spazio all’emozione: «Il pensiero di separarmi da lui, anche se per un tempo limitato, mi ha fatto vivere alcune notti insonni. Tuttavia, con le mie scelte vorrei insegnare a mio figlio che nella vita è meglio inseguire i propri sogni che bloccarsi ed essere frustrati. Una frustrazione che si ripercuoterebbe anche sulla mia famiglia».

Non è la prima volta

L'ospedale di Emergency a Kabul
L'ospedale di Emergency a Kabul

Roberto è già stato in missione in Afghanistan, ma anche a Siracusa allo sbarco dei migranti. In entrambi i casi sempre con Emergency, l’associazione indipendente e neutrale fondata nel 1994 da Gino Strada e da Teresa Sarti per offrire cure medico-chirurgiche gratuite e di elevata qualità alle vittime delle guerre, delle mine antiuomo e della povertà. «Il Covid mi ha provato molto, come tutti, del resto - racconta -. Nel periodo peggiore della prima ondata, l’Unità di terapia intensiva coronarica era rimasta semipulita da pazienti contagiati, ma è ovvio che se arrivava una persona positiva con un infarto in corso dovevamo salvarle la vita. Un periodo difficile, come lavorare in un’area di guerra. Sono stato anche nei Centri vaccinali al Brixia Forum, a Sarezzo e a Ospitaletto ed ho trascorso anche un periodo di tirocinio nell’area Covid di via Morelli perché sto completando il master per diventare infermiere di famiglia e di comunità».

La passione

Ragazze afghane passeggiano per strada, prima del ritorno al potere dei talebani
Ragazze afghane passeggiano per strada, prima del ritorno al potere dei talebani

La grande passione di Roberto è il territorio. Tant’è che dalla prossima settimana in Afghanistan coordinerà le cliniche periferiche di Emergency, avendo come base l’ospedale di Kabul. Equivale ad un lungo tirocinio per un infermiere che ama il territorio. «La mia vocazione è quella e spero, al mio ritorno, di poter effettivamente lavorare con la comunità - continua -. Sono convinto che sul territorio ci si prenda cura della salute delle persone, al contrario dell’ospedale in cui si è per forza concentrati sulle emergenze. Il dramma della nostra sanità è che abbiamo smesso di occuparci della salute per intervenire solo in emergenza. Molte malattie, se intercettate prima sul territorio, non si trasformerebbero in emergenza».

Ora, però, parte. «Un percorso di vita che mi piace: ho studiato infermieristica per fare cooperazione internazionale ed ho la fortuna di avere una compagna, medico infettivologo, che capisce la spinta emozionale che mi fa scegliere di partire - spiega -. Paura? Nel 2016, alla missione precedente, in Afghanistan c’era la guerra e già allora più della metà del Paese era in mano ai talebani. Ora, almeno in teoria, la guerra non c’è più, ma temo che sul piano umanitario e dei diritti troverò disastri enormi. La maggior parte delle persone qualificate è partita, lasciando una realtà prima di know-how. No, nessun ripensamento sulla mia partenza in una fase critica per la nostra sanità. Il bisogno di laggiù non è nemmeno lontanamente comparabile a quello che abbiamo noi».

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C’è bisogno anche qui

Mancano infermieri? «Beh, prima della pandemia i diritti del lavoro per gli infermieri sono stati calpestati: nel pubblico i posti erano pochi ed il privato aveva mano libera - conclude -. Con il Covid si sono aperte le porte degli ospedali pubblici dove i diritti sono maggiori. Non sono i numeri a difettare: bisogna rivedere la nostra figura professionale per evitare che l’Italia continui ad essere terra di conquista di altri Paesi, e non parlo ovviamente della cooperazione internazionale. Qui veniamo formati, ma a lavorare in molti vanno all’estero perché ci sono condizioni più favorevoli». Sei mesi di aspettativa per motivi umanitari, concessa dal Civile su richiesta del ministero degli Esteri. Al ritorno spera di essere infermiere di famiglia e comunità.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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