Dal carcere: «Chiedo scusa perché chi ama non picchia»
Ha preso mouse e tastiera e dopo tre anni ha chiesto scusa. La sua vittima non c’è più perché una malattia l’ha strappata alla vita prima che conoscesse l’esito definitivo del processo.
«Sono ancora oggi affranto per quanto accaduto e non c’è giorno che non pensi a Stefania ed al male che le ho arrecato, non solo a lei ma anche a suo padre» scrive Lorenzo Sulas in una lettera inviata alla nostra redazione. Lorenzo è stato condannato a dieci anni di carcere perché la sera del 19 gennaio 2016 in un appartamento in città tentò di uccidere la fidanzata Stefania Lombardi e colpì il padre di lei, che perse un occhio.
«Questa lettera - scrive Sulas - vuole portare delle scuse a loro ma senza farlo in maniera banale. Non ho chiesto scusa in aula perché era troppo facile farlo e non sarebbe stato corretto verso di loro presentarle in quell’ambiente troppo vicino a uno scopo favorevole per la mia posizione».
Sulas, 44 anni, già con precedenti specifici era stato denunciato più volte da Stefania che aveva sempre però ritirato le accuse. Agli atti dell’inchiesta ci sono anche i referti medici per i ricoveri in Pronto soccorso della donna, che hanno scandito la relazione. «Quando penso a quello che ho fatto e ai miei giorni di prigione, ravviso il cuore di un uomo che amava, il quale però aveva braccia che colpiscono. Non si può picchiare ciò che si ama, è una contraddizione in sé che procura l’annichilazione di quell’intenzione con la quale si procede un sentimento» è il pensiero che esprime Sulas al termine di un percorso che racconta di aver intrapreso una volta finito dietro le sbarre.
«La consapevolezza delle esperienze negative mi ha indotto a guardarmi dall’esterno e la mia mente si è aperta. Particolarmente analizzando il mio ultimo reato, ho raffrontato me stesso, ho esaminato e riconosciuto che ho compiuto il male» ammette l’uomo che riconosce poi la tesi espressa dai giudici: «Non voleva che la sua donna si allontanasse da casa. La concepiva come un oggetto» si legge nelle motivazioni della sentenza.
E lui non si nasconde. «Ho capito che l’accanimento del possesso è ciò che mi ha spinto a compiere il gesto. Il possesso infatti è quella condizione ostinata e a volte ossessiva che ci induce a non perdere ciò che abbiamo, soprattutto in considerazione dei nostri affetti». In questa fase della vita Lorenzo Sulas racconta poi del suo rapporto con gli altri e con se stesso. «Io sto imparando a rendermi vezzo all’uso della ragione e ad addestrarmi al suo utilizzo perché possa ristrutturare la mia personalità per divenire un uomo migliore».
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato