Da Di Pietro a Davigo: Roberto Spanò giudice dei giudici
Ieri da giudice dell’udienza preliminare, con indagato un magistrato uscito due anni prima dal pool di Mani pulite. Oggi da presidente di sezione con imputato un ex pm che di quel pool entrato nella storia del nostro Paese ha fatto parte e che da pochi mesi è in pensione. Tra ieri e oggi ci sono in mezzo 26 anni. Ad unire Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo, oltre alla comune esperienza in procura a Milano nel gruppo di lavoro che ha provato a sconfiggere le tangenti in Italia, c’è un collega togato che ha giudicato il primo e si appresta a giudicare il secondo.
Sarà infatti Roberto Spanò a presiedere il collegio che il 20 aprile avvierà a Brescia il processo nei confronti di Davigo, accusato e rinviato a giudizio per rivelazione di atti di ufficio nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta Loggia Ungheria e sui verbali dell’avvocato Amara consegnati all’ex componente del Csm dal pm di Milano Paolo Storari, che ha invece scelto il rito abbreviato, e che il sette marzo conoscerà il suo destino dopo che l’accusa ha chiesto per lui la condanna a sei mesi. Come vuole la procedura in tema di competenza territoriale, di vicende che riguardano magistrati in servizio a Milano, indagati o parti offese, ad occuparsene è la giustizia bresciana.
La carriera
E così il nome di Spanó torna al centro delle scena. «Il magistrato dei processi spinosi» lo definì nel 1996 il Corriere della Sera. L’inchiesta sulla maxi tangente Enimont, l’inizio del caso Parmalat, il sequestro Soffiantini e l’arresto del generale Delfino e prima ancora l’arresto di due islamici che reclutavano terroristi per la guerra in Iraq e che il gip di Milano Clementina Forleo aveva scarcerato e Spanó riarrestó, sono passati sulla sua scrivania. Ma è il caso Di Pietro il più eclatante della carriera del giudice nato a Parma, ma ormai bresciano a tutti gli effetti. Allora, in un clima di pressioni mediatiche e di palazzo, aveva pronunciato una doppia sentenza di non luogo a procedere nei confronti dell’ex magistrato, passato nel giro di pochi anni da eroe nazionale per le picconate alla Prima Repubblica a suon di avvisi di garanzie e arresti preventivi, a grande accusato.
Messo nel mirino dall’allora coppia di pm bresciani Fabio Salamone-Silvio Bonfigli, che gli contestarono in due procedimenti separati i reati di abuso d’ufficio e concussione. Spanó non aveva usato troppe perifrasi nel motivare la sua decisione. «Il discorso potrebbe esaurirsi qui» scrisse a pagina 7 della sentenza del 22 marzo 1996 - in una motivazione complessiva di 95 pagine - spiegando che vi era «estrema difficoltà, già sulla base della mera prospettazione, a ravvisare negli episodi contestati i tratti della rilevanza penale», arrivando poi a inquadrare l’indagine della Procura contro Di Pietro utilizzando espressioni come «anemia probatoria» e «azzardato esercizio dell’azione penale».
Dopo 26 anni
Ora dopo 26 anni Roberto Spanó si ritroverà sul banco degli imputati un altro componente del fu Pool di Mani pulite. Quel Piercamillo Davigo che ha scelto il dibattimento per potersi difendere. Il clima dentro e fuori il Palazzo di giustizia di Brescia oggi è lo stesso di ieri, anche se il Di Pietro del 1996 - per popolarità - non è il Davigo del 2022. Su Brescia c’è grande attenzione dei media nazionali. Nel fascicolo Davigo, finito in cassaforte in tribunale, ci sono i verbali di Amara con i nomi dei presunti affiliati alla Loggia Ungheria oltre ad altri atti secretati. Le cautele non mancano: chi visionerà il plico di documenti dovrà firmare un verbale, così da scongiurare fughe di notizie.
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