Covid, Sileo: «Non illudiamoci di essere liberi dopo il test»
Non è possibile fraintendere le parole di Claudio Sileo, direttore generale di Ats Brescia: «I risultati dei test sierologici non servono a mettermi al riparo dall’infezione da coronavirus. Non illudiamoci di essere persone libere dopo il test, anche nel caso il risultato sia positivo».
A pochi giorni dall’avvio delle analisi anche nel Bresciano, la domanda di senso si ripete, anche alla luce delle molte e contraddittorie informazioni che si captano in una fase tanto delicata della nostra vita.
«Se non servono, perché si fanno spendendo tempo e danari pubblici?». «Le persone devono fare un ragionamento semplice: come cambia la mia vita se il test è positivo o se è negativo. Vediamo. Se è positivo, significa che sono venuto a contatto con il virus, ma quando? Per sapere se sono ancora infetto devo fare un tampone, perché non so in assoluto lo stadio della situazione e se gli anticorpi che ho sviluppato e di cui mi ha dato informazione il test sierologico sono neutralizzanti, ovvero mi mettono al riparo dalla malattia e dall’infettare gli altri. Allora devo rimanere in isolamento fino al tampone, magari anche per giorni perché dipende da una serie di variabili legate alla capacità dei laboratori di processare i tamponi. Poi, se il tampone è positivo, devo mettermi in quarantena e, al termine, rifare due tamponi. Se negativo, non ho più il virus, ma nessuno mi garantisce per quanto tempo durerà l’immunità: un mese, un anno? Ancora non sappiamo. Se il test sierologico è negativo, significa che non ho mai avuto il virus. Ma se domani incontro una persona positiva che mi infetta, divento positivo senza nemmeno saperlo. Qual è la conclusione: che sia positivi sia negativi devono seguire comportamenti personali e sociali tali da scongiurare il contagio».
Dunque, anche dopo aver fatto il test ci si deve comportare esattamente come prima, con le stesse restrizioni personali e sociali.
Allora, perché farlo? Spiega Sileo: «Intanto, non è obbligatorio. Prova ne è il fatto che una persona su tre risponde no alla nostra chiamata. Le ragioni sono molte: o perché ha la febbre, o perché ha già fatto il test rapido. Alcuni, invece, sono stati malati di Covid-19, ora sono guariti e non hanno più voglia di ricominciare con esami e controlli. Altri si arrabbiano e dicono: sono rimasto quindici giorni a casa e stavo male, nessuno si è occupato di me e adesso mi chiedete di fare il test?».
Ed aggiunge: «Il risultato dei test non è mirato a liberare tutti quelli negativi. Ma è molto importante perché fornisce informazioni epidemiologiche sulla popolazione, considerato che su 1,2 milioni di bresciani i positivi sono almeno 120mila. Il 90% è a rischio, dunque conoscere come il virus è circolato con analisi a campione sui diversi gruppi di popolazione significa riuscire ad intercettare subito il sintomatico, isolare lui e i suoi contatti ed evitare la ripresa dell’epidemia». In realtà, il lavoro che viene fatto ora, incrociando i dati dei test sierologici con quelli dei tamponi effettuati sulla stessa persona, servono moltissimo anche alla ricerca.
L'obiettivo dei test è determinare la quantità di due proteine specifiche sulla mappatura del Coronavirus: sono gli anticorpi che rilevano l'attività del sistema immunitario, e precisamente i due valori definiti IgM e IgG. Se il valore è inferiore a 15, il test è negativo, se superiore, è positivo. Ma quale deve essere il valore per sapere se è stata sviluppata l’immunità? E chi ha, ad esempio, un valore pari a 16 di concentrazione di anticorpi, ha più probabilità di reinfettarsi di chi ha ottanta o cento? Domande aperte alle quali le conoscenze di un virus giovane qual è il Sars-Cov-2 non permettono ancora di dare risposte supportate da validità scientifica.
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