Così slàca il tacolér fra bèrsa e teologia
«Slàca büss ch’èl trapèla el mòch». Non tutti i linguaggi sono usati per farsi capire. O quantomento non tutti sono usati per farsi capire da tutti. Alcuni linguaggi - infatti - sono un vero e proprio enigma (parola che deriva dal verbo greco antico ainìssomai, che significa parlo copertamente). E allora per intenderli bisogna affidarsi a una squadra di logici (come fece con Alan Turing il governo britannico nella Seconda guerra mondiale chiedendogli di decrittare i codici segreti tedeschi) oppure provare a farsi amico qualcuno che quel linguaggio lo conosce.
In equilibrio arcaico fra gergo (utile a farsi riconoscere dai componenti di un clan) ed enigma (utile a non farsi capire da chi al clan è esterno) nelle valli bresciane camune e bergamasche echeggiava un tempo il gaì, il linguaggio enigmatico dei pastori. O - per meglio dire in gaì - la slacadùra (la parlata) di tacolér (dei pecorai, di chi porta in giro le tàcole, le pecore). Ricco di termini propri: bèrsa è la fame, batènta l’ora, garólf il cane, caesà il mangiare, caldüsa la stalla, macìl il ragazzino e gagéra la morosa. E avanti così.
Termini mai urlati, ma spesso pronunciati a mezza voce da pastore a pastore. Usati per avvertire il sodale: «Slàca büss (non parlare) ch’èl trapèla (che passa) el moch (l’estraneo, il montanaro)». O ancora: «Fìca ’l vél (scappa) ch’èl spàer del spigaröl (il padrone del campo di frumento) l’è ofieràt brendòs (è molto arrabbiato)».
Linguaggio da pastori, ma aperto a commoventi illuminazioni teologiche. Come definire Dio «el casér de tücc», il casaro di tutti noi.
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