Coronavirus, come il medico Usca entra a casa dei malati
Le tapparelle abbassate nonostante qualche timido raggio di sole primaverile, comparso dopo due giorni di clima autunnale, invoglierebbe a spalancare le finestre. Il salotto trasformato in una seconda camera da letto per chi non ha sintomi. Dall’altra parte dell’appartamento vive chi invece è alle prese con tosse, febbre e difficoltà respiratorie. Immagini della quarantena tra le mura domestiche con l’incubo di aver contratto il coronavirus.
È la scena che si è trovata davanti agli occhi la dottoressa Mirsada Katica, da due giorni componente dell’Usca, l’Unità speciale di continuità assistenziale che Ats ha deciso di far nascere in tutta la provincia. «Siamo partiti dalla zona rossa di Orzinuovi (anche se il Governo non ha mai voluto riconoscerla tale, ndr) e ora queste strutture ci sono anche in città, a Montichiari e a Palazzolo» spiega il direttore Ats Claudio Sileo. Si tratta di nove dottori in tutto che, su indicazioni dei medici di base, vanno a casa dei pazienti che lamentano sintomi da Covid-19.
«Non facciamo il tampone» e così sarà fino a quando Regione Lombardia non cambierà rotta. «Visitiamo le persone con il medico di riferimento poi decidiamo se è il caso di scegliere la strada del ricovero o se invece proseguire la cura a casa». Nella sede della Guardia medica l’elenco delle visite a domicilio si sta allungando. «Ma sono i medici che devono telefonare e fissare gli appuntamenti e non i pazienti. Non è il servizio d’emergenza» dicono da via Duca degli Abruzzi.
I medici entrano ed escono con una certa regolarità dalla base dell’Usca. La dottoressa Mirsada Katica non fa tempo a scendere dall’auto che già deve ripartire. Psicologicamente non riesce nemmeno a smaltire la visita terminata da poco. «Le persone che incontriamo sono molto tristi e spaventate. Adesso una signora era disperata perché abbiamo dovuto accompagnare il marito in ospedale e lei doveva rimanere a casa con il timore di non rivederlo». Siamo davanti a medici, ma non a robot.
«La casa del prossimo paziente è qui vicino» le spiegano i colleghi. In effetti bastano meno di cinque minuti per arrivare a destinazione. Zona Sud, alle spalle del termovalorizzatore. Chi ha chiesto aiuto non risponde nemmeno al citofono. Apre il cancellino e basta. «Venga pure, la stavamo aspettando» dice una voce lungo le scale. Il medico però deve cambiarsi e indossare tuta, guanti, cuffia e occhiali. Materiale di protezione che al termine della visita chiuderà in un sacchetto e butterà. «Mi hanno detto che il paziente ha febbre e dispnea da alcuni giorni. Valuto e poi decidiamo che fare».
Il protocollo è standard. «Si cerca di capire da quanto tempo ha la febbre, soprattutto se da più di sette giorni. Poi si guarda la saturazione dell’ossigeno che deve essere superiore a 90 e si valuta lo stato generale». Suona il campanello ed entra nell’abitazione al primo piano della palazzina, sotto gli occhi carichi di preoccupazione dei parenti del padrone di casa. La visita dura un quarto d’ora. «Per ora resta a casa» è la primissima valutazione della dottoressa Katica. «Il paziente è stabile, desaturava, ma non esageratamente. Se inizia ad avere difficoltà deve immediatamente ricontattarci e torniamo». Fotografia del quadro clinico, ma poi c’è l’aspetto morale. «La moglie ovviamente non era molto contenta del rischio che possa essere polmonite da coronavirus. L’ho tranquillizzata e speriamo che possa andare tutto bene». Poi toglie tuta, guanti e mascherina. Il prossimo paziente la aspetta.
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