«Contro la siccità anche l'acqua del mare nel futuro dell'agricoltura»

Renata Archetti, ingegnere idraulico dell'Università di Bologna, spiega la sua idea
La docente Renata Archetti - © www.giornaledibrescia.it
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E se usassimo l’acqua del mare? La disalinizzazione potrebbe essere una delle risposte alla crisi idrica, ma è una strada che il nostro Paese non intende percorrere. Anche se, a fronte del 97% dell’acqua disponibile sulla terra di origine marina, la desalinizzazione potrebbe giocare un ruolo di primo piano nella lotta alla siccità.

Una tecnologia di questo tipo, dato il susseguirsi di fenomeni estremi di calura nei periodi estivi, dovrebbe essere presa in considerazione e sostenuta tra le soluzioni necessarie ad incrementare le riserve idriche potenziali. Un tema di cui abbiamo parlato con Renata Archetti, di origine bresciana, professore di Idraulica al Dipartimento di Ingegneria civile, chimica, ambientale e dei materiali ad Alma Mater Studiorium Università di Bologna.

Emergenza idrica e siccità. Un tema che in questi giorni conquista le prime pagine dei giornali, ma che ha radici profonde in scelte che risalgono nel tempo. Professoressa, perché siamo in emergenza? È solo una questione legata al caldo e alla carenza di precipitazioni? Era possibile prevenirla?

In generale la siccità è una conseguenza dei cambiamenti climatici che stanno interessando la vita di tutti noi. Una politica di contrasto va perseguita. Ad esempio, si potrebbero evitare molti sprechi. Basti pensare che nelle reti idriche italiane si registra una perdita sistematica del 42% circa, distribuita in modo non omogeneo nella rete. Questo significa che, su 100 litri che transitano nell’acquedotto, ben 42 non raggiungono l’utenza finale. Un numero altissimo.

I dati Istat evidenziano come le perdite maggiori si registrino a Frosinone e Latina, nel Lazio. Milano è tra le più virtuose, con il 19% circa di perdite. La prima cosa da fare, quindi, è la manutenzione alla rete idrica.

Ritiene che desalinizzare l’acqua del mare sia attuabile nel nostro Paese, per poter poi usarla in agricoltura? Con quali costi?

Malta dal 1982 procura acqua attraverso la desalinizzazione di quella marina. Una soluzione affiancata da un vasto programma di gestione e riparazione delle perdite idriche. Si pensi a Israele dove il 35% circa del fabbisogno di acqua potabile arriva dalla dissalazione, anche se le prospettive sono quelle di arrivare ad una percentuale del 70%. In Italia non si arriva neppure allo 0.5 %. I moderni impianti di desalinizzazione a osmosi inversa per acqua salata sono una soluzione possibile, che permette di potabilizzare l’acqua salata e al contempo risparmiare sul consumo di quella dolce. A mio parere è un percorso assolutamente necessario per il futuro, soprattutto quando si è in emergenza o per le aree costiere che presentano intrusioni saline nelle falde.

Per desalinizzare l’acqua del mare per usi agricoli o umani serve, tuttavia, molta energia. Ed anche in questo campo, c’è aria di crisi.

Certo, obiezione attesa: oltre alla scarsità di acqua, siamo anche in un momento di crisi energetica e, quindi, non si può pensare di utilizzare l’energia per desalinizzare. Ho sempre pensato che una soluzione potrebbe essere accumulare l’energia rinnovabile dal sole, dal vento o dal mare in forma di acqua dolce, in zone costiere o presso le piccole isole che spesso non hanno una loro autonomia idrica. L’idea è che durante le stagioni di minore domanda di energia e di acqua (l’inverno) l’energia del vento e del mare possano alimentare un desalinatore per accumulare acqua dolce da utilizzare in momenti di magra e siccità.

Ho fatto una stima, partendo da dati di letteratura: un desalinatore di capacità di circa 2.500m3/h necessita di circa 4,4 kWH per produrre un metro cubo di acqua dolce. Ho poi stimato quanto potrebbe produrre un convertitore di energia del mare accoppiato ad un desalinatore installati al largo di Lampedusa. Una stima è di 11,3 milioni di litri d’acqua, pari al contenuto di 4,5 piscine olimpioniche. Questo è un semplice esercizio accademico che va affinato, ma tenete conto che i convertitori di energia da onda sul paesaggio hanno un impatto minimo. Un discorso analogo può essere fatto con altre fonti rinnovabili; l’importante è vedere l’acqua dolce come una fonte di accumulo di energia, un po’ come si fa con la produzione di idrogeno.

A proposito di mare, ci può spiegare cos’è il cuneo salino, altra minaccia per le coltivazioni e per le città?

Le minacce sono per le città costiere. Il cuneo salino è l’intrusione marina verso l’entroterra attraverso il sottosuolo. Le acque dolci sotterranee, che sono più leggere di quella salata, tendono a galleggiare sopra l’acqua marina che si è infiltrata. Il problema riguarda le falde freatiche di territori costieri. L’intrusione marina è provocata dalla diminuzione del livello d’acqua dolce negli acquiferi costieri o dall’aumento del livello del mare.

Questo fenomeno si riscontra non solo nei territori costieri, ma anche nelle foci dei fiumi quando la portata d’acqua dolce verso il mare diminuisce sensibilmente, come sta succedendo ora, e l’acqua salata può risalire parte del fiume rendendo salmastra l’acqua. Dalla foce del Po l’intrusione è già nell’ordine dei 25 chilometri. Per ridurre questo fenomeno si potrebbe «iniettare» acqua dolce nelle falde acquifere, acqua che potrebbe essere prodotta mediante un processo di desalinizzazione con energia rinnovabile solare.

Per dissetare i campi si punta al prelievo di acqua dai laghi. Così anche nel Bresciano, provincia che le ha dato i natali, ricca di laghi. Lei crede che sia questa la strada percorribile?

Certamente svuotare troppo gli invasi ha un impatto ecologico e ambientale, così come la riduzione di risorsa idrica dagli invasi sta avendo impatti sull’agricoltura. Queste sono scelte politiche non tecniche. Dovremo imparare a convivere con decisioni poco popolari per affrontare le emergenze che ci aspettano. Che cosa si può fare oltre a fronteggiare l'emergenza? Cominciare a pensare che siamo protagonisti della transizione ecologica, non solo utenti. Riaprire in Germania le centrali a carbone mostra che ancora non si è capito che ci sono processi e abitudini che non devono più esistere.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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