Cinquanta (o quasi) sfumature porcine
Non proprio cinquanta sfumature porcine, ma quasi. Ad andar per funghi, nella nostra provincia, si incontra almeno una dozzina fra nomi e varianti usati per indicare il Boletus, l’amato porcino delle nostre tavole.
Se sulla capacità di riconoscere il fungo non si deve certo scherzare (troppi raccoglitori sedicenti esperti finiscono ogni anno in ospedale), sul nome dialettale si può - io credo - essere un poco più tolleranti. Perché ogni variante, purché ragionevolmente e storicamente radicata in un territorio, ha un suo legittimo diritto di cittadinanza.
Il dibattito si è acceso quando il nostro sito ha pubblicato la foto di un porcino record e il collega ha scritto nella didascalia il nome «regorsèla». Apriti cielo. Subito a decine ci hanno scritto: «Noi lo chiamiamo legorsèla, con la elle e non con la erre...» Chi ha ragione? Tutti: legorsèla (che letteralmente significa piccola lepre, forse perché ad accomunare fungo e animale c’è quel morbido color sottobosco) è sicuramente il nome più diffuso, ma regorsèla è documentato nella zona di Bagolino.
Se poi si prova a consultare il bellissimo Atlante lessicale della Fondazione Civilità Bresciana, si scopre che i porcini noi li chiamiamo in molti modi: da frér o ferèr (in Alta Valcamonica) a nóne, dürèi, cùchi (a Collio), hanmartì (in Valtrompia le fioriture autunnali), bolécc négher (per distinguerli dai bolé o bolécc biànc che sono ovuli), ambrösì (a Paratico), inversì (a Monticelli). Nell’entroterra gardesano ecco una vivace tavolozza di ligorsèle, legursèle, rigorsèle, nigorsèle... Non proprio cinquanta sfumature porcine, ma quasi.
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