Ci sono centraline a Brescia che rilevano anomalie nucleari

A mettere tutti sull’attenti sono stati l’assalto armato alle due centrali nucleari ucraine di Chernobyl e Zaporizhzhia e l’ipotesi di utilizzo di armi chimiche.
Con la guerra in Ucraina innescata dalla Russia, i rischi di doversi trovare ad affrontare le conseguenze di un incidente nucleare - e di un rialzo dei livelli di radioattività nell’aria - sono tornati a preoccupare il mondo, Italia in primis. Ma a distanza di 36 anni dal disastro che sconvolse tutti, è difficile che una situazione del genere possa ripetersi, anche grazie a centraline che monitorano eventuali anomali. E due di queste si trovano in provincia di Brescia.
Le agenzie di stampa parlano di un boom di richieste per la realizzazione di bunker in cui poter trovare riparo dalle bombe e da eventuali radiazioni e sui social network spesso è stata alimentata la paura dando conto di una presunta psicosi: la corsa all’acquisto di pillole a base di iodio per contrastare gli eventuali effetti negativi sulla salute dell’esposizione a radiazioni. Al punto che l’Istituto superiore di sanità si è trovato costretto a divulgare una nota in cui specifica che «è sconsigliato il ricorso fai-da-te a preparati contenenti elevate quantità di iodio che invece potrebbero determinare conseguenze negative per l’organismo, incluso il blocco funzionale della tiroide».
Una paura, questa, che nasce da una serie di interrogativi: cosa succederebbe se il conflitto danneggiasse le centrali nucleari in Ucraina? E quali potrebbero essere i rischi umani e ambientali se, come aveva scritto il presidente ucraino Zelenskiy, «la tragedia di Chernobyl si ripetesse»? L’Italia sarebbe preparata? Chi monitora? Tutte domande che hanno risposte precise.
I dati che fanno da bussola

Un rischio radiologico - confermano gli esperti dell’Isin - c’è, ma nulla di paragonabile con il disastro del 26 aprile 1986, quando Chernobyl fu teatro del più drammatico incidente della storia. È vero: le strutture di sicurezza degli impianti nucleari non sono progettate per resistere ad attacchi militari con armi pesanti e i continui scontri potrebbero comportare fughe di elementi radioattivi che, attraverso i venti, potrebbero potenzialmente viaggiare in direzione Europa.
«Ogni giorno si conducono analisi puntuali per vedere cosa contiene il particolato, è una procedura ormai di routine per noi» conferma la dottoressa Rossella Rusconi, responsabile del Centro regionale di radioprotezione dell’Arpa Lombardia. Che prosegue: «Essere in grado di misurare concentrazioni così basse prima che diventino pericolose ci permette di attivare specifici ed efficaci canali di approfondimento. È successo, ad esempio, per Fukushima: l’allarme è stato intercettato in anticipo. Ma il caso più eclatante è stato quello del Rutenio 106: siamo stati i primi in Europa a individuare l’anomalia». Il lavoro del team che compone la Rete nazionale di sorveglianza della radioattività (Resorad) comprende anche le previsioni di dispersione delle sostanze in atmosfera e uno studio sul meteo «perchè questo consente di capire in quanto tempo le particelle potrebbero raggiungere l’Italia».
Cosa succede se scatta l'allarme

L’Arpa Lombardia è impegnata direttamente sul campo e una serie di centraline sono posizionate anche nel Bresciano. Le principali, quelle con la misurazione in continuo, sono due: la prima è situata nel capoluogo, in via Cantore; la seconda in Valcamonica, nei pressi dell’ospedale di Esine. Questi sono i due punti di monitoraggio «sentinella», quelli cioè che sarebbero immediatamente in grado di rilevare eventuali anomalie scaturite sia sulla scia del conflitto in Ucraina sia in caso di eventuali problematiche alla base Nato di Ghedi.
Come funziona, concretamente, questo sistema e quali sono le contromisure che si mettono in atto? Spiega Rusconi: «Nel caso in cui scoppiasse una bomba scatterebbero immediatamente le misure di salvaguardia: si verificherebbe subito la dispersione nelle masse d’aria e ci si preparerebbe ai campionamenti aggiuntivi, analisi che riguarderebbero le matrici più esposte». In particolare, ad essere controllati sarebbero latte, frutta e verdura, ma solo quelle coltivate all’aperto, perchè di fatto la radioattività «piove» sopra i prodotti e quelli all’aria aperta sono perciò i più esposti.
«Non c’è alcuna ragione di procedere con la iodioprofilassi - sottolinea la responsabile del Centro -: se accidentalmente si rilevassero sorgenti radioattive e alcuni alimenti risultassero contaminati scatterebbe il blocco del consumo di tutti i nutrimenti che si usano per il foraggio degli animali, quindi dei vegetali che crescono all’aperto mentre le coltivazioni in serra sarebbero salve proprio perchè protette». Non solo. A scattare in automatico sarebbe anche il sistema di controllo sui prodotti di importazione: «Questo perchè il fatto che i nostri prodotti alimentari non siano contaminati, non significa che quelli prodotti in altri Stati, specie se più vicini al luogo dell’eventuale incidente, non lo siano».E se l’incidente dovesse essere gravissimo? «Nel caso dell’Ucraina lo ritengo improbabile, ma se l’evento risultasse importante, verrebbe rilevato anche dalle stazioni che misurano la dose gamma assorbita in aria». La misura della dose gamma in aria è un indicatore molto rapido di incrementi di radioattività dovuti a rilasci di sostanze radioattive in atmosfera. Il limite principale di questo tipo di controlli è la sensibilità, che è limitata e consente di individuare solo anomalie dirompenti: l’incidente di Fukushima, ad esempio, non ha prodotto alcuna variazione dei valori di intensità di dose in aria mentre è stato rilevato dalla rete per la misura del particolato atmosferico.
Per contro, in caso di incidente grave la segnalazione di allarme avviene in tempo pressoché reale. Si tratta insomma di uno strumento meno sensibile rispetto ai rilievi delle «centraline-sentinelle» di cui si è parlato prima: «Se c’è un aumento della dose gamma significa che l’evento è gravissimo: a questo punto intervengono l’Isin e la Protezione civile nazionale. Solo in questo caso - precisa Rusconi - potrebbe scattare per la popolazione il riparo al chiuso per qualche tempo e la iodioprofilassi. Per arrivare a questo, però, l’incidente dovrebbe essersi verificato nelle strette vicinanze». Cioè? Un raggio massimo pari a trenta chilometri.Due tipi di radioattività

Quando parliamo di radioattività bisogna tenere presente che ce ne sono di due tipi. Da un lato la radioattività naturale, legata cioè alla presenza di elementi radioattivi alle origini come l’uranio, il radio, la neve, il torio o il radon (un gas radioattivo generato nel suolo e nelle rocce e che si accumula negli ambienti chiusi). Dosi di radiazioni arrivano anche dai raggi cosmici, ovvero particelle ad alta energia che provengono dallo spazio e colpiscono la Terra da ogni direzione. La radioattività artificiale è invece quella originata dalle attività dell’uomo: dalla tecnologia nucleare, impiegata sia per scopi civili sia per fini militari, alla medicina nucleare passando per la ricerca scientifica.
Una buona parte di radioattività artificiale presente nell’ambiente è dovuta alle due bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki, ai test atomici in atmosfera compiuti negli anni Sessanta, in piena Guerra Fredda, e agli incidenti nucleari di Chernobyl e Fukushima. La radioattività ambientale, quindi, è l’insieme di questi due tipi di sorgenti, dove quella naturale è maggiormente presente.Chi vigila? Il controllo della radioattività ambientale è regolato dal Ministero della transizione ecologica e dal Ministero della Salute, che si concentra più sul controllo degli alimenti e delle bevande per il consumo umano e animale. Il sistema di monitoraggio si affida a una rete di sorveglianza nazionale, in capo sempre alla Rete nazionale di Sorveglianza della Radioattività (Resorad), e alle Arpa. Dopo il disastro di Chernobyl, il nostro Paese si è dotato anche di un sistema di verifica automatico, composto complessivamente da 105 rilevatori capaci di segnalare aumenti anomali della radioattività in tempo reale.
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