Caso Ubi, «mai esistito un patto occulto»: in 205 pagine smontate le accuse

Depositate le motivazioni della sentenza d’appello. Sull’asse Brescia-Bergamo «l’operato era pubblico»
La rimozione dell'insegna Ubi Banca a Brescia in una foto d'archivio - Foto New Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it
La rimozione dell'insegna Ubi Banca a Brescia in una foto d'archivio - Foto New Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it
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Un castello di accuse smontato pezzo dopo pezzo. Per la seconda volta. Alle 268 pagine di motivazioni del primo grado si aggiungono le 205 depositate dai giudici d’appello nei giorni scorsi. «Ritiene la Corte che i rilievi critici offerti dal pubblico ministero siano del tutto inidonei a sconfessare il costrutto argomentativo sviluppato dal tribunale e le conseguenti conclusioni». Parole, quelle del presidente, ora in pensione, della seconda sezione penale della Corte d’Appello di Brescia Giulio Deantoni che potrebbero mettere una pietra tombale sulla vicenda Ubi, iniziata nove anni fa e conclusasi con l’assoluzione di massa. Banca d’Italia e Consob sapevano ogni movimento e non ci fu ostacolo all’attività di vigilanza.

La sentenza

Così è stata confermata l’assoluzione con formula piena per Andrea Moltrasio, Giovanni Bazoli, Enrico Minelli, Pierpaolo Camadini, Emilio Zanetti, Giuseppe Calvi, Italo Lucchini, Armando Santus e Mario Mazzoleni. Rispetto al proscioglimento per intervenuta prescrizione di primo grado, hanno incassato l’assoluzione nel merito anche Victor Massiah, Marco Mandelli, Gemma Maria Baglioni e Enrico Invernizzi. E in appello anche l’unico condannato in primo grado, il bresciano Franco Polotti, esce dal processo senza colpe.

Il presunto patto

Sotto la lente della magistratura erano finiti i protagonisti della fusione in Ubi Banca, datata 2007, tra la bresciana Banca Lombarda e Piemontese e la bergamasca Banche Popolari Unite. «Cuore pulsante» di tutto il processo - come è stato definito agli atti - era il presunto «patto parasociale tra le due associazioni fondative che - secondo la prospettazione accusatoria - svuotando di contenuti dialettici gli organi sociali avrebbe rigidamente assoggettato l’istituto bancario a decisioni esterne assunte da soggetti in definitiva estranei all’organizzazione della banca». La Procura di Bergamo ha sempre sostenuto che si sia trattato di un patto occulto sull’asse Brescia-Bergamo. Tesi smontata in due gradi di giudizio.

«Nessuno - scrivono i giudici - si permette seriamente di contestare che le due associazioni di soci istituzionali esercitassero una significativa influenza sulle dinamiche decisionali del nuovo soggetto bancario, ma non erano affatto occulte, ma anzi mostravano un’indiscutibile dimensione pubblica, segnata dalla diffusione all’esterno dei propri atti costitutivi, in sostanziale coevità alla genesi del nuovo soggetto bancario, e da acconce comunicazioni agli organi di vigilanza anche, si è visto, delle modificazioni più sensibili delle proprie modifiche statuarie». Per la Corte d’Appello inoltre «se si fosse trattato di trame occulte - si legge nelle motivazioni - le due associazioni si sarebbero ben guardate dal disvelare anticipatamente i contenuti di incontri destinati a rimanere segreti, discutendone tranquillamente nei rispettivi direttivi».

Cade anche l’unica condanna

In primo grado il bresciano Franco Polotti, all’epoca presidente del consiglio di gestione, era stato l’unico condannato. Un anno e sei mesi per conflitto di interessi per non aver comunicato la sua partecipazione nella società Edilbeta. Assolvendolo in appello, i giudici scrivono: «Prescindendo da ogni rilievo circa la pretesa connotazione squisitamente morale da lui attribuita alle partecipazioni di cui era titolare, si pone allora aggiuntivamente un concreto dubbio circa l’effettiva dolosità della sua omessa indicazione, alternativamente riconducibile ad un atteggiamento di mera superficialità o negligenza».

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