Caso ’Ndrangheta, il compenso: «150mila euro per uccidere»

L’attentato da commettere ai danni dell’ex membro dalla ’Ndrangheta residente a Canale d’Agordo nel Bellunese veniva definito «il lavoro da fare in montagna». Le armi erano «gli scavatori» e le bombe «i giocattoli». Utilizzavano telefoni criptati Gianenrico Formosa, Giuseppe Zappia e Francesco Candiloro, i tre bresciani in carcere da lunedì con l’accusa di detenzione di armi da guerra, che secondo le indagini il gruppo avrebbe voluto impiegare per uccidere un ex affiliato alla cosca Crea che da tempo abita in Veneto.
Reato contestato con l’aggravante di aver agito per conto della ’Ndrangheta. «Il valore probatorio del contenuto delle chat è straordinario» scrive il pm Teodoro Catananti e - aggiunge il gip Andrea Gaboardi nelle 57 pagine di ordinanza di convalida dei fermi - «le chat hanno permesso di disvelare i diversi livelli coinvolti nel progetto omicidiario».
E tra i messaggi agli atti spunta anche il compenso per portare a termine l’attentato. È il 9 maggio 2020 infatti quando Vincenzo Larosa, anche lui in carcere da lunedì nell’ambito della stessa inchiesta e in cella in Calabria così come Michelangelo Tripodi, scrive a Francesco Candiloro, il co-proprietario di un laboratorio di pasticceria in città a Brescia che è anche accusato dalla Procura di Ancona, con Tripodi, dell’omicidio del fratello di un collaboratore di giustizia avvenuto il 25 dicembre 2018.
«Troviamo una soluzione per questo lavoro che ci danno 150mila euro» scrive Larosa che stando alle indagini avrebbe ricevuto dalla cosca Crea il mandato di uccidere l’ex affiliato. Sulla pericolosità sociale dei tre bresciani il gip non ha dubbi: «Si trovano stabilmente inseriti, sia pure con diversi ruoli, in un contesto di criminalità organizzata di stampo ’ndranghetista caratterizzato da strettissimi vincoli di affiliazione e dunque da notevoli capacità di reciproca copertura e si sono avvalsi di cellulari criptati con i quali comunicare al riparo dalla tradizionale attività di intercettazione, per intrattenere i contatti con il loro mandante diretto Vincenzo Larosa e per eludere attività investigative a loro carico».
Nell’ordinanza di convalida dei fermi il giudice ricorda poi gli episodi in cui Gianenrico Formosa avvicina più volte il legale dell’ex socio in affari sporchi, quando scopre dell’arresto di quest’ultimo, diventato poi l’uomo chiave dell’inchiesta con le sue rivelazioni. «Formosa - scrive il gip - richiedeva al difensore di essere informato tramite una mail criptata nel caso in cui l’ex socio avesse fatto il suo nome, promettendo in cambio un compenso». Per il giudice, «il numero dei tentativi di abboccamento e la gravità delle intimidazioni compiute da Formosa è senza dubbio indicativo dell’effetto perturbante sulla serenità e sulla tranquillità della professionista e del suo assistito». E minacce non sarebbero mancate nemmeno lunedì mattina dopo il fermo.
Questa volta è Zappia che nella sala d’attesa della caserma dei carabinieri, come emerge dalle intercettazioni ambientali, avrebbe più volte avvicinato la donna alla quale aveva in passato affidato il compito di adescare l’ex affiliato alla ’Ndrangheta da uccidere, «per - scrive il gip - ammonirla ripetutamente circa le conseguenze che avrebbe patito nel caso in cui avesse confermato la versione ipotizzata dagli inquirenti. Un atteggiamento - conclude il giudice - allarmante».
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