Caso Caffaro, l'azienda annuncia una battaglia legale

I titolari intendono presentare un ricorso al Tar. Gli ambientalisti chiedono interventi per aiutare i cittadini «incolpevoli e abbandonati»
LA CAFFARO RICORRE AL TAR
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Due fronti contrapposti sul caso Caffaro: da un lato l’azienda, che intende avviare una battaglia legale contro la sospensione delle attività decretata dalla Provincia, dall’altro gli ambientalisti, che chiedono nuovi interventi più decisi sul pcb e sugli altri veleni dispersi nell’ambiente dal sito industriale di via Milano.

Per quanto riguarda il primo fronte, Donato Antonio Todisco, titolare della Caffaro Brescia Srl, annuncia un ricorso al Tar per riprendere la produzione di clorito di sodio, utilizzato per la potabilizzazione delle acque. Al momento in azienda sono rimasti solo tre autotreni di merce, spiega Todisco, e sono pronti a partire, poca roba rispetto ai sette al giorno che la Caffaro vendeva prima di essere fermata. Secondo la proprietà, avanti di questo passo, molti acquedotti italiani non potranno potabilizzare le acque. 

Secondo i titolari, ora come ora l’azienda non avrebbe responsabilità in tema ambientale. Riguardo alle perdite di cromo VI dalle vasche, all'origine della sospensione alle lavorazioni imposta dalla Provincia, la proprietà dice di aver chiesto agli enti come operare per smaltire il rifiuto, senza avere avuto risposta. Si tratterebbe di circa 230 mc di liquido contenuto in uno dei 4 silos incriminati. Due sarebbero vuoti, uno integro, uno invece crepato da circa due anni. Il liquido che esce è momentaneamente raccolto e stoccato dalla Caffaro Brescia. 

Gli ambientalisti, raccolti nel Tavolo Provinciale Basta Veleni, chiedono invece alle istitutzioni di ricordarsi anche dei 20-30 mila cittadini che sono costretti a convivere con la presenza di Pcb e diossine. «Sono stati dimenticati», dicono. Il Tavolo ha inviato al Ministero per l'ambiente ed a tutti gli enti interessati un documento nel quale si chiedono precisi interventi, a seguito del decreto dell’1 marzo scorso che abbassa drasticamente i limiti per le diossine nei terreni aggiungendo alla sommatoria delle diossine anche le diossine simili. Ciò significa, viene detto, che la gravità dell'inquinamento è di gran lunga superiore rispetto a quella sin qui conosciuta.

 

 

Basta Veleni chiede inoltre una nuova caratterizzazione dei terreni inquinati con nuova perimetrazione del Sito di interesse nazionale all'esterno degli insediamenti industriali, la revisione dell'ordinanza del sindaco finalizzata all'imposizione di alcuni limiti di utilizzo del territorio dell'area interessata, la riconsiderazione dei risultati della sperimentazione di Ersaf Lombardia sui suoli agricoli.

L’appello alle istituzioni è partito da un luogo simbolico: i terreni di Pierino Andreoli, incolti ormai da 17 anni a seguito dell'inquinamento verificato, ma che è ancora costretto a pagarvi l'Imu. Andreoli, secondo gli ambientalisti, è l’emblema dei cittadini incolpevoli e abbandonati.

 

 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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