Camilleri, l’emozione del dialetto amico
«Gli era nisciuta 'na voci stramma, da gallinaccio. Si schiarì il cannarozzo e ripigliò...». Ci sarà tempo, oltre la soglia dell’emozione, per ragionare sul moltissimo che Andrea Camilleri ci ha lasciato. Ma due sono le eredità evidentissime: lo sguardo affettuoso e mai retorico verso il genere umano l’esplosività d’un linguaggio intriso di sapori dialettali. Mille sono i termini di radice siciliana che compaiono nelle pagine di Camilleri e che - bypassando l’italiano sciacquato in Arno - trovano un cugino stretto nella parlata bresciana.
Tra i molti: ecco il suo campéri e il nostro campér (il campiere, il guardiano dei terreni, ma in bresciano anche la rana dalmatina), le sue cavagne (cestino da ricotta) e il nostro caagnöl, il suo cunzàri e il nostro consà per condire, il suo petrosìno e il nostro pedersèm per prezzemolo, il suo trobbolo e il nostro tróbe, il suo vucceri e il nostro bechér per macellaio... Ma al di là di veri o presunti tesori regionalistici, ciò per cui Camilleri fissa un punto fermo nell’uso del dialetto è che in lui la parlata locale segna il colloquio tra pari, indica che si è usciti dalla formalità per attraversare la porta dell’intesa.
Parliamo in dialetto perché tu ed io ci riconosciamo e ci capiamo. Come uomini prima ancora che come conterranei. Succede così anche nelle nostre famiglie, o al caffè della piazza. «Alùra, come ’àla?» è una domanda oggi riservata all’amico e a lui solo (risponderà «’dóm aànti...»). Ma oggi siamo ancora al di qua della soglia dell’emozione, quella che - come scrive la nostra Alberti Nulli - «la strèns el canarös en gola». Già, il canarös. Camilleri («Il gioco degli specchi») scrive cannarozzo.
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