Attenti agli algoritmi troppo «intelligenti»
Dopo l’attacco hacker (l’ennesimo…) dei giorni scorsi dovrebbe essere chiaro che per le infrastrutture critiche la cybersicurezza non costituisce un orpello (o un lusso). Bensì un’esigenza fondamentale a cui dovrebbe provvedere la politica, anche in termini di sovranità digitale.
Perché la tecnologia rappresenta per la politica contemporanea una sfida prioritaria, come dimostrano anche le ultimissime evoluzioni dell’intelligenza artificiale (AI). L’AI si nutre di algoritmi predittivi, e il suo fine non è tanto il comprendere quanto il prevedere (a questo servono, per l’appunto, i big data). Non individuano relazioni causali, ma ricercano correlazioni, e non riescono a ridurre l’incertezza sul futuro, come in tanti (sia tra chi decide che fra chi viene investito dagli effetti delle decisioni) si attendono.
La politica occorre proprio per scongiurare il rischio dell’assegnazione di scelte che impattano largamente sulla vita pubblica ad agenti autonomi che prescindono dal controllo umano. L’intelligenza artificiale, dunque, va sottoposta ad adeguate regolamentazioni, a differenza di quanto avvenuto con le piattaforme, perché la tecnologia tende necessariamente a «invadere» il campo politico (come è successo con i social media). Tu chiamala, se vuoi, politica pedagogica.
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