Attentato a Felice Maniero: in silenzio il bresciano in cella
È rimasto in silenzio. Non ha risposto alle domande del gip nel corso dell’interrogatorio e al termine ha chiesto i domiciliari. Nel frattempo resta in carcere a Verona il 67enne Francesco Rivellini, residente ad Adro e arrestato in settimana nell’ambito dell’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Venezia che ha stroncato sul nascere la nuova mala del Brenta, che era ripartita attraverso alcuni volti storici del gruppo capeggiato da Felice Maniero negli anni Ottanta ai quali si sono aggiunti figli e figlie di alcuni esponenti di spicco di un tempo e nuove leve del crimine.
«Si può dire che si è in presenza di un nucleo, diverso dal precedente, indebolito dal pentimento di alcuni membri di spicco e dall’arresto di altri, ma non per questo poco pericoloso. Infatti, una volta rimessi in libertà, taluni dei suoi esponenti più importanti hanno pensato di poter riorganizzare l’associazione, ricalcando modelli già conosciuti» scrive il gip di Venezia Barbara Lancieri nelle 364 pagine di ordinanza di custodia cautelare che ha portato all’arresto di 31 persone, 25 finite in carcere e sei ai domiciliari.
Il bresciano e le bombe
Francesco Rivellini, che dei suoi 67 anni ne ha trascorsi una ventina in cella come membro della malavita attiva tra Bergamo e Brescia, è l’uomo che il primo dicembre 2018 consegna a Rovato, nel parcheggio di un centro commerciale, tre bombe nelle mani di Cristian Michielon e a Paolo Pattarello. Per gli inquirenti sono esplosivi che il gruppo avrebbe voluto usare per eliminare Felice Maniero, lo storico boss poi pentito che all’epoca viveva a Brescia, con una nuova identità, dove poi sarà arrestato un anno dopo per maltrattamenti sulla compagna.
«Vi è un fil rouge che collega le conversazioni intercettate, costituito dalla ossessiva ricerca e dalla pianificazione, da parte dei membri del sodalizio, dell’omicidio di chi li aveva traditi, ovvero dei collaboratori di giustizia. Così, a più riprese, gli indagati si sono posti alla ricerca di Paolo Tenderini, l’unico del gruppo dei mestrini ad avviare una collaborazione con l’autorità giudiziaria e di Felice Maniero che, con le sue dichiarazioni, aveva reso possibile la condanna tanto di Boatto e di Pattarello» scrive il gip.
Rivellini, difeso dall’avvocato Gianbattista Scalvi, quel giorno consegna l’esplosivo che poco dopo i carabinieri trovano nell’auto di Salvatore Lodato, fermato a Peschiera. «Sono tre bombe, con attivazione elettrica con telecomando» si legge nell’ordinanza. «Dagli accertamenti compiuti in seguito dagli artificieri - prosegue il gip - è risultato che sono ordigni di ottima fattura, tanto che, fatti esplodere hanno creato crateri di ampiezza compresa tra i 45 e i 65 centimetri per una profondità di 25».
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