Antonella Andriani: «Dietro il design, rigore e attenzione alla qualità»
Inclusivo, vocato a migliorare nel concreto la vita delle persone, e democratico, a dispetto di una visione storpiata che lo vuole affiancato al lusso, rendendolo appannaggio di pochi. Perché il design sarà anche un concetto astratto, ma i suoi effetti si riverberano quotidianamente attorno a noi.
Lo anticipa Antonella Andriani, designer di professione, vicepresidente di Adi - Associazione per il Disegno Industriale, che promuove il concorso internazionale Compasso d’Oro; celeberrimo e italianissimo, fondato nel 1954, è considerato il Nobel del settore.
Domani, mercoledì 26 aprile, dalle 17 alle 18.30, Antonella Andriani sarà ospite dell’Accademia SantaGiulia di Brescia (in via Tommaseo 49, ingresso libero, e in streaming sul sito web del GdB). Con lei dialogheranno Massimo Tantardini e Michele Scarpellini, della SantaGiulia.
Dottoressa Andriani, durante l’incontro «Design Skyline» parlerà sia agli studenti aspiranti designer che alla cittadinanza.
Proprio per questo, il primo punto che affronterò riguarda la «scollatura» tra ciò che succede nelle università, il contesto reale nel quale i designer si trovano ad operare, e la percezione che all’esterno si ha della professione. La credenza diffusa vede il progettista guidato da «un’illuminazione» che lo porta a creare. La realtà è che si tratta di un mestiere complesso che necessità di continui aggiornamenti e conoscenze transdisciplinari. Accade perché tecnologie, materiali, processi produttivi e bisogni della società evolvono continuamente. E questo riguarda tutti gli ambiti della vita, dalla forchetta che metto in tavola al grande yacht.
Qualche esempio concreto?
Dal comfort di arredi e utensili per la casa, alla bioingegneria delle protesi. Dal mondo del lavoro, con le calzature antinfortunistiche, l’ergonomia di cacciaviti o poltrone del dentista, alla moda sempre più sostenibile. Dal design dell’automobile a quello per il sociale, con le carrozzine progettate per i percorsi Dynamo Camp. Anche il settore food abbraccia il design. Spesso quest’ultimo è associato a prodotti esclusivi e costosi, in realtà i criteri da considerare sono qualità e virtuosità. Penso ad esempio a quei prodotti che, a parità di performance rispetto ad altri della stessa categoria, sono smontabili e riciclabili (a vantaggio del pianeta e quindi di tutti), o all’anno in cui il Compasso d’Oro è stato vinto sia da Ferrari che da un progetto per l’alleggerimento dei tombini. Il fine è migliorare la vita delle persone.
L’Italia è considerata il Paese migliore al mondo per studiare design. Da dove deriva, quindi, questa poca consapevolezza degli italiani rispetto alla disciplina?
È un problema di mancata definizione, tipico di quanto il concetto da spiegare è astratto e cangiante. Lo stesso architetto Michele De Lucchi, ritirando il Compasso d’Oro alla carriera, disse: «guai a chi prova a definire il design, mettendo così dei paletti». Potremmo dire che laddove c’è un buon progetto c’è design. Noi addetti al settore usiamo la metafora dell’arcipelago: le isole sono obiettivi e valori a cui approdare, il mare sono le competenze ingegneristiche, filosofiche, progettuali, tecnologiche… il design è la corrente che connette l’acqua alla terra.
Alcuni passi sono stati fatti, come l’Adi Design Museum.
L’abbiamo inaugurato a maggio 2021 e oltre alle mostre temporanee raduna la collezione permanente del Compasso d’Oro. Un passo importante, perché ha ufficializzato che, oltre ad essere merce, questi oggetti sono elementi culturali parte del nostro bagaglio di conoscenze.
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