Angelina, «la figlia di Chernobyl» operata a Brescia 30 anni dopo
Angelina il 26 aprile del 1986 era nella pancia di sua madre. Doveva ancora nascere quando l’esplosione all’interno della centrale nucleare Lenin di Chernobyl, in quella che allora era ancora l’Urss, causò la fuoriuscita di una enorme nuvola di materiale radioattivo.
La polvere mortale ricoprì interi paesi e cittadine nelle vicinanze, rimaste - a distanza di trent’anni - immobilizzate in quella sospensione che sa ancora di morte e di dolore. Tra giostre, ponteggi, palazzi vuoti come scheletri di un corpo bruciato da quel soffio letale che uscì dal reattore per una serie di errori umani.
La famiglia di Angelina venne sfollata insieme ad altre 330mila persone, trasferita da Pripyat e Chernobyl a Kiev.
Poco dopo averla partorita la mamma della ragazza si è ammalata di cancro. Il padre è stato stroncato da un tumore così come il fratello. Solo lei pareva essersi salvata da quelle onde maledette. Ma così non è stato. Anche lei trent’anni dopo il disastro si è ammalata, venendolo a sapere poco dopo essersi sposata.
Così, quel viaggio di nozze in Italia, tanto sognato dai due sposini, si è di fatto trasformato in un viaggio di cure mediche, per dare un futuro alla giovane coppia. Ad aiutare la ragazza ucraina è stata l’associazione Decorati Pontifici che riunisce chi è stato insignito dalla Santa Sede di una onoreficenza, guidati da monsignor Ivo Panteghini. L’associazione con la rete internazionale di contatti tra religiosi, ha fatto visitare Angelina all’ospedale Civile in città dove si è occupato di lei il dottor Guido Tiberio che si è interessato della parte burocratica per il ricovero e poi anche della stessa operazione al linfonodo della trentenne.
A chiedere aiuto a monsignor Panteghini è stato padre Antonio Evasian, «uomo di cultura e che insegna anche all’Università di Yerevan, in Armenia». Il religioso ha conosciuto anni fa Angelina e sua madre, quando ancora abitavano a Kiev. Le ha portate via dall’Ucraina, fino in Libano e poi in Armenia. Due anni fa la terribile scoperta: un linfonodo al collo della ragazza si era di molto ingrossato. «Stando ai medici di là - spiega monsignor Panteghini - quel gozzo non era maligno. Ma padre Antonio ci ha voluto vedere chiaro e così ha chiesto a me e all’associazione di dargli una mano. È stato così che Angelina è arrivata in Italia e grazie all’amico dottor Guido Tiberio che l’ha visitata rinunciando alle sue vacanze, è stata operata». Il verdetto degli esami non è stato fausto ed anzi, una volta tornata in Armenia la giovane avrebbe dovuto seguire un protocollo di cure indicate dal chirurgo bresciano.
Cure che in Armenia però non avrebbero potuto garantire e così per la «figlia di Chernobyl» si sono nuovamente mobilitati padre Antonio e il Vescovo di Yerevan che sono riusciti a trovare un ospedale a Gerusalemme, dove Angelina è stata sottoposta alle cure chemioterapiche a lei necessarie. «Oggi è molto provata - racconta monsignor Panteghini - ma si continua a lavorare per farla curare. Tornerà in Italia a febbraio per essere sottoposta ad un esame e anche in quel caso ci dovremo occupare della sua permanenza nel nostro Paese e delle spese mediche necessarie».
Questa la storia di Angelina, raccontata da monsignor Panteghini, che non va oltre un laconico commento: «Questa è la carità che nessuno conosce ma che continua a tenere in piedi il mondo».
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