A te che ogni giorno accendi la lavatrice, il forno e la speranza
Ha il tuo nome e il tuo cognome, che non è quello di tua madre e non sarà quello dei tuoi nipoti. Tu, quando fai ciò che devi o che hai scelto, sei tu. Non sei tuo padre, non tuo marito e nemmeno i tuoi figli. Sei tu e basta, rispondi solo a te stessa.
Quando ce la fai risulti una sorpresa. Per il padre orgoglioso, il marito fiero, i figli che non capisci mai se siano indifferenti, si vergognino o abbiano stima di te. Accendi ogni giorno la lavatrice, il forno, la speranza. Porti mocciosi a scuola e a varie attività, anziani all’ospedale, fai il professionista, l’impiegato, l’operaio, il commerciante.
Abbracci e dai sostanza a speranze diverse dalle tue, perché ciò che coltivi e che costruisci ogni giorno non corrisponde necessariamente a qualcosa che stai facendo per te stessa, anzi. Hai mille doveri, ma ciò che fai fuori da essi (nel poco tempo che ti resta) è solo tuo e nessuno può prendersene il merito, perché reca scritto sopra il tuo nome soltanto. Le parole stesse per definire il tuo ruolo, a parte moglie e madre, non sono nate declinate così: sono state adattate al femminile dal tempo, dalle mutate condizioni sociali e dai meriti di chi ti ha preceduta.
Marie Curie, uno dei più grandi geni dell’umanità, vincitore di due premi Nobel, si chiamava Maria Sklodowska. Chi oserebbe non tributarle il giusto rispetto? Eppure persino lei, per diventare ciò che doveva essere, ha dovuto cambiare nome. Usare un nome diverso dal proprio alla fine è niente rispetto alla possibilità di fare ciò che si sente di essere in grado di fare.
La prima volta che Marie entrò nella sua classe alla Sorbona come professore, gli studenti (tutti maschi) rimasero confusi. Non capivano che ci facesse quella femmina seduta in cattedra. Eppure aveva già vinto il primo Nobel. Ma i nomi sono solo parole.
«Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus» («la rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nomi nudi»). Così finisce il nome della Rosa di Umberto Eco. Vuol dire che alla fine della vita resta solo ciò che hai e la paternità dei meriti è un concetto che supera le nostre miserie.
In realtà nel tuo caso si dovrebbe dire maternità, ma come sai le definizioni spesso non sono state concepite per te. Quella mattina di novembre gli studenti di Madame Curie non ci misero molto a capire chi avevano di fronte. A volte basta spiegarsi, a volte purtroppo non è sufficiente.
Probabilmente tra pochi secoli i capitani della flotta stellare (maschi, femmine e alieni) rideranno di queste stupidaggini. Forse sarebbe meglio cominciare subito. Devono capirlo gli uomini e anche le donne (e ovviamente pure gli alieni). Non si può pretendere di ottenere venerazione e comodità senza darsi da fare, perché l’uguaglianza, per quanto possa essere ingiusto, è un privilegio che per alcuni è un dato acquisito e invece per altri, tipo in svariati casi per il genere femminile, è il risultato di una dura lotta.
Le donne in gamba sono come antichi soldati di ventura e come loro hanno il loro onore. Non lasciano indietro i deboli, non procedono senza mai voltarsi. Vanno avanti ma sono capaci di aspettare chi rimane indietro, chi sta facendo fatica. Abbiamo ancora tanta strada davanti, ma se consideri i passi che abbiamo percorso con le nostre gambe diciamo che a questo punto potresti anche fidarti.
Non pensare solo ai chilometri che ci mancano per giungere alla meta, pensa a tutti quelli che abbiamo fatto per arrivare qui. Arriverà persino il giorno in cui ti accorgerai che, visto tutto ciò che facciamo, quello che credevi attesa forse sarebbe più opportuno definirlo azione. Come diceva l’ignota Maria Sklodowska, «non si presta mai attenzione a ciò che è stato fatto: si vede soltanto ciò che resta da fare».
Conquistiamo ogni giorno sul campo il nostro diritto di progettare il futuro. Non il futuro delle donne. Il futuro e basta.
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