Una pietra sul mistero: quando fu trovata la tomba di Manolo
Sono le 22 e qualche minuto. Il telefono si mette a suonare, proprio quando la giornata in redazione è arrivata agli sgoccioli. Sul display compare «numero sconosciuto». Sconosciuta è anche la voce all’altro capo della cornetta. «Il signor Guido ora può stare tranquillo, che mio padre è morto» mi dice con l’italiano che si impara al campo nomadi la figlia di Ljubisa Vrbanovic. È la sera del 23 marzo del 2017.
Il processo a Manolo sta riprendendo, anche se senza convinzione. Violeta, così sostiene di chiamarsi la donna, mi racconta di aver appena visto un’intervista in tv in cui Viscardi dichiara di non credere al certificato di morte dell’uomo che gli ha azzerato la famiglia. Mi dice di aver scoperto da poco non solo che Manolo è morto, ma anche che era suo padre. «Ho subito chiesto a mia mamma se conosceva il bandito slavo accusato della strage di Pontevico - mi spiega la giovane donna -, e lei mi ha raccontato tutto. Della loro relazione, della mia nascita, ma anche delle sue rapine e della sua morte. Scoprire l’identità del padre e scoprire che era un feroce bandito a trent’anni non è bello. So che è sepolto al cimitero di Ilicevo, là troverà la sua tomba».
Metto giù, apro Google maps. Cerco Ilicevo, scopro che è a due ore d’auto da Belgrado, a pochi chilometri a nord est di Kragujevac, là dove la Fiat ha uno dei suoi stabilimenti più grandi. Devo scoprire anche se Violeta dice il vero, se a Ilicevo c’è davvero un cimitero, se in quel cimitero c’è davvero quel che cerco. Così mi metto al telefono e trovo chi può aiutarmi. La conferma arriva a pochi minuti dalla chiusura del giornale. Trovo il volo per la Serbia, l’auto che mi porta sulla tomba di Manolo e una persona in grado di guidarmi in una terra difficile, come può esserlo quella periferia. Dragan Petrovic, corrispondente Ansa dai Balcani, un pozzo di conoscenza e mestiere, alle 10 del giorno dopo è all’aeroporto di Belgrado.
Saliamo su una Panda a noleggio e per pranzo siamo dove diceva Violeta: davanti alla tomba di suo padre. Per raggiungerla dobbiamo vincere sulle strade strette e poco asfaltate che risalgono la collina di un paesino in cui il benessere non è mai stato distribuito. Guido tra carcasse d’auto e rifiuti. Fatico a credere che il luogo per piangere i propri cari sia al centro di una discarica a cielo aperto. «I cristiani costruivano i cimiteri in luoghi protetti, per salvarli dagli assalti degli arabi» mi spiega Dragan, mentre fermo l’auto al culmine della salita, proprio davanti all’ingresso del camposanto. Pochi passi e ci troviamo davanti ad una distesa di tombe di marmo lucido, il più delle volte nero. Su alcune ci sono delle bambole, su altre bottiglie di vino o lattine di birra, su altre ancora piatti e posate. Sono tutte diverse, anche se si assomigliano tutte.
Nessuna però è come quella di Manolo. Ad indicare dove inizia il suo aldilà è una croce di legno corrotto dalle intemperie. È conficcata nella terra cruda. In cirillico, ma non ci si può sbagliare, c’è scritto Ljubisa Vrbanovic. La data di nascita corrisponde. Le altre conferme mi arrivano dal custode. «In Serbia le persone contano poco da vive, ancora meno da morte. Non c’è un’anagrafe ufficiale dei defunti, ci pensiamo noi a tenerla a penna» mi spiega mentre squaderna il registro nel quale sono iscritte le anime sepolte. Si ferma alla pagina di Manolo. «Ricordo ancora il suo funerale - mi racconta -: era un giorno di pioggia fittissima. La sua bara era sulle spalle di un parente e di tre operai della ditta funebre. Non c’era nessuno a piangerlo allora e nessuno viene a piangerlo anche oggi. Sul fatto che sia lui, però, nessuno qui ha dubbi». Nessuno ha dubbi, ma nemmeno lo nomina con il suo nome di battaglia. Nonostante Manolo sia morto e il capitolo sepolto, per tutti qui è meglio parlare di Ljubisa Vrbanovic e, in ogni caso, farlo a bassa voce.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato