Strage di Torchiera, 30 anni dopo: dolore e memoria
Un ruscello di acqua mista a sangue si infila sotto la porta della villetta. Scivola in cortile. Irrompe nella realtà, cancellando l’estate in largo anticipo. Fuori dalla casa piange e si dispera l’unico superstite. Sa che dentro, della mamma, del papà, del fratello e della sorella sono rimasti solo i corpi straziati. Non conosce il perché. Se lo chiederà in eterno, senza risposta e senza sosta. Tutti i giorni, più volte al giorno da trent’anni esatti. Tanti ne saranno passati domani dalla carneficina di Torchiera di Pontevico, dalla strage che rese Guido Viscardi orfano di tutto.
Quando, la mattina del 16, Guido si presenta a casa dei suoi capisce subito che qualcosa non va. Quella copiosa scia che esce dalla villetta, il cancellino accostato, le persiane ancora chiuse - là in mezzo ai campi di mais e nel pieno di un’estate che non concede tregua a chi vive di terra e bestie - rimbombano come l’eco degli spari esplosi tra quelle mura. Un proiettile ha bucato un calorifero e aperto il diluvio d’acqua in casa. Gli altri hanno chiuso quattro esistenze. L’allarme scatta immediato. Trovare indizi a Ferragosto, nel cuore della Bassa, è complesso. Ma non impossibile. Qualcuno, nei pressi della villetta del massacro, ha visto una Mercedes forestiera.
Gli uomini della Squadra Mobile, allora guidata da Nando Dominici e dal suo vice Gilberto Caldarozzi, dall’ispettore Primo Sardi partono da lì. Risalgono all’auto, scoprono che è un taxi rubato nelle Marche, ma anche che ha un telefono a bordo e che questo telefono ha fatto quattro chiamate a Kragujevac, in Serbia, a casa di Vrbanovic e di Bairic. È la svolta: ad ottobre Manolo è in manette, il nipote riesce a sottrarsi alla cattura, ma morirà poco dopo in un conflitto a fuoco. L’epica vuole che, per non farsi catturare dalla Polizia, si sia sparato con la stessa pistola del massacro dei Viscardi e così abbia lasciato sul campo la prova della sua presenza a Torchiera la notte tra il 15 e il 16 agosto.
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