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Saihou, il quarto figlio di Nicoletta e Sergio trovato al parco

Era seduto su una panchina del parco, bagnato e con in mano una fetta di pancarrè. Saihou ha trovato in Nicoletta e Sergio due genitori
Nicoletta Ragni, Sergio Malacarne e Saihou Jammeh
Nicoletta Ragni, Sergio Malacarne e Saihou Jammeh
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Era seduto su una panchina del parco. Bagnato da una pioggia gelida e con in mano una fetta di pancarrè, sulla quale stava cercando di spalmare un pezzetto di burro. Faceva fatica, perché anche il burro era congelato. Come lui, del resto. In quell’attimo, gli si è fermato davanti un uomo, che stava portando il cane a passeggio: «Cosa fai qui, non hai freddo?», gli ha chiesto.
La sorpresa. Lui, Saihou Jammeh, con un corpo troppo esile persino per i suoi diciotto anni, ha alzato gli occhi, senza rispondere. 

Del resto, era forse la prima volta che qualcuno si interessava a lui, a quello che provava, al perché si trovava lì, solo, nel buio freddo di una sera di una primavera che sembrava inverno. Non avrebbe mai immaginato che quell’incontro, lo scorso aprile, gli avrebbe cambiato la vita, permettendogli di lavorare e di coltivare il suo sogno di calciatore. Ora indossa con orgoglio la maglia della Bagnolese, squadra juniores.

Superata la diffidenza, iniziano a chiacchierare. «Mi ha detto che dormiva in stazione e che era senza casa» racconta Sergio Malacarne, musicista di Bagnolo Mella. «Mi sembrava impossibile: gli ho dato del denaro e mi sono fatto dare il numero di telefono che, nella fretta, non avevo nemmeno memorizzato. Poi, sono tornato a casa, dove mi aspettava mia moglie Nicoletta. Ma l’immagine del ragazzo seduto sulla panchina sotto la pioggia gelida, non mi usciva dalla mente. 

Ho raccontato la storia a mia moglie e poi via, senza esitare, mi sono precipitato al parco. Era ancora lì. Gli ho detto di venire a casa a mangiare con noi. Dopo cena, è stato quasi naturale invitarlo a dormire in una delle stanze vuote dei nostri tre figli, che ormai vivono altrove. Da quella sera, è ancora con noi».

Nicoletta e Sergio guardano Saihou, che tra pochi giorni compirà diciannove anni. Ed è lo sguardo sereno di due genitori che affrontano i problemi dei figli con concretezza e con semplicità. Di due persone che, alle troppe domande, preferiscono la risposta. «La prima sera avevamo mandato una foto ai nostri figli. Erano preoccupati per noi, ed era naturale visto che ospitavamo un ragazzo del Gambia che non avevamo mai visto prima. Ho risposto: state tranquilli, dai suoi occhi ho capito che mi posso fidare».

Saihou era partito dal Gambia, in Africa occidentale, nel maggio 2015 perché cercava «una buona vita». Un viaggio lungo cinque mesi, attraverso il deserto, di passaggio in passaggio. «Non avevo soldi, quando sono partito. Così, cercavo di volta in volta di salire su un autobus o su un camion dove già si trovavano altri migranti. Ho fatto lo stesso anche quando dalle coste della Libia mi sono imbarcato: ero nel luogo delle partenze, quando mi sono mescolato ad un gruppo di persone che veniva spinto sul barcone. 

Solo dopo qualche ora di navigazione, qualcuno si è accorto che ero l’unico nero in mezzo ad altri migranti dalla pelle chiara. Che ci fai qui? mi chiesero. Ho risposto che anch’io volevo andare via e che non volevo morire. Mi hanno tollerato, dandomi un secchio con il quale, per tutto il viaggio, ho dovuto ributtare in mare l’acqua che entrava nella stiva».

Saihou non sapeva di essere diretto in Italia. Del resto, anche quando attraversava l’Africa non era ben certo dei luoghi in cui si trovava e più volte la fragilità dei suoi sedici anni aveva preso il sopravvento sul coraggio, facendogli desiderare il ritorno a casa. «Ma non ne ero più capace», racconta. Ha capito di essere quasi in Italia quando è stato soccorso da una nave, poi via terra su un pullman un altro lungo viaggio fino a Milano. Da lì, ancora per caso, è salito sul treno diretto a Brescia, dove è sceso, semplicemente perché scendevano tutti.

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