Mauro, l’ingegnere senza frontiere da Elnòs all'Africa
Dal cantiere del centro commerciale Elnòs a quello dell’ospedale di Kenema in Sierra Leone. È un percorso alla ricerca di un significato alto, più profondo, arricchente, quello che ha portato il 36enne ingegnere bresciano Mauro Gandossi a lasciare la sua Berlingo per arruolarsi nelle fila di Medici Senza Frontiere. Lui, che medico non è, fa parte di quella schiera di tecnici che rappresenta la forza logistica dell’associazione.
«Ho iniziato a lavorare per Msf nel novembre del 2017» racconta Mauro, da pochi giorni in Italia dopo la conclusione della sua terza missione. «La prima, di 6 mesi, è stata in Repubblica Centrafricana, poi sono stato cinque mesi in Sierra Leone. E di recente altri sei: arrivo proprio da lì, dove ho lavorato alla costruzione dell’ospedale pediatrico e ostetrico di Kenema». Una struttura che sta particolarmente a cuore a Medici Senza Frontiere, perché l’epidemia di ebola del 2014 ha decimato il personale sanitario della zona e i tassi di mortalità infantile sono alle stelle.
«Il cantiere - racconta Mauro - ha impegnato una quarantina di colleghi di Msf provenienti da tutto il mondo e 400 operai locali». Non pochi i problemi che l’ingegnere senza frontiere si è trovato a fronteggiare nella costruzione dell’ospedale. «Il primo scoglio è la lingua, per cui mi sono trovato ad usare dei modellini per spiegare le cose di cui avevo bisogno. Gli operai non sanno leggere i nostri progetti, spesso lavorano con la fame e ci vedono poco. Non ho mai visto nessuno qui in cantiere con degli occhiali... Sono davvero tanti i fattori da tenere in considerazione, a partire dai tempi di consegna dei materiali. I tir vengono spesso bloccati per ottenere tangenti».
L’ospedale però ha preso forma e fra qualche mese Mauro partirà per una nuova missione. «Ne ho rifiutata una in Afghanistan. La mia fidanzata è un medico, anche lei lavora per Msf e cerchiamo di farci assegnare gli stessi incarichi per poter stare insieme». La vita in Africa non è sempre una passeggiata. «In Repubblica Centrafricana, soprattutto, la situazione era instabile. Col buio non si usciva e capitava di venire minacciati dai gruppi armati. La prima cosa che ho fatto quando sono tornato in Italia è andare a farmi una corsa. Ne avevo bisogno».
Verrà il giorno in cui Mauro tornerà definitivamente alla base, ma non è ancora il momento. «Si pensa di dare tanto, ma si riceve molto di più. L’altro giorno, per strada, ho visto un bimbo di 5 anni che spaccava pietre con un martelletto. La famiglia l’aveva messo al lavoro. Credo che chiunque, oggi, avrebbe bisogno di vedere una scena così per capire davvero cosa c’è all’origine delle migrazioni».
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