«Ma quale eroe, io costretto a scegliere quale paziente intubare»
Non usa giri di parole. Racconta quello che sta vedendo ogni giorno da ormai cinque settimane. Il suo messaggio arriva dritto allo stomaco come un pugno. L’ultimo è di qualche giorno fa. Accompagnato da una foto di un uomo intubato nel letto di ospedale: «Natale con i tuoi, Pasqua con noi. 38 anni. Buone passeggiate».
Chi scrive è un medico anestesista che lavora in uno degli ospedali della provincia. Chiede l’anonimato. «Non cerco visibilità, ma voglio che la gente capisca che l’emergenza coronavirus non è finita solo perché adesso sono arrivate le giornate di sole». Lo sfogo arriva al termine dell’ennesimo turno no stop in reparto dopo lo tsunami che ha cambiato per sempre la sua vita di medico.
«Il ragazzo di 38 anni della foto stava bene, non aveva patologie, era in salute. Quindi basta dire che i casi più gravi riguardano solo gli anziani. Eppure c’è ancora gente che non ha capito che il virus uccide e che non è una semplice influenza». Per questo ha deciso di pubblicare sui social attimi di vita vera che diventano messaggi choc. Come quelle poche righe sopra la foto di una lastra ai polmoni compromessi: «Maschio, 31 anni, anamnesi muta. Magari il flashmob potrà aiutarlo. E continuate a fare le passeggiate mi raccomando». Punta il dito contro chi ancora sottovaluta.
«Raccontare la realtà non è mai eccessivo, la quarantena sta funzionando e lo dicono i dati, ma ci sono ancora sacche di resistenza e qualcuno ha iniziato a uscire di casa. Forse ribadire cosa accade negli ospedali può aiutare» dice il medico. I ricoveri sono infatti diminuiti, ma la situazione nelle Terapie intensive resta molto complicata. «Stiamo facendo un lavoraccio, noi abbiamo quadruplicato i posti in terapia intensiva e soprattutto nella seconda e nella terza settimana di marzo abbiamo vissuto l’inferno in ospedale e non siamo riusciti a portare in terapia intensiva tutti i pazienti che ne avevano bisogno. Siamo davvero stati costretti a scegliere. Un malato anziano perdeva sul malato più giovane».
Nella mente di questo medico anestesista restano immagini incancellabili. «Su tutte quella che ho vissuto nel reparto di Medicina, zona di passaggio verso la terapia intensiva, quando con un foglio in mano ho dovuto dire al collega internista che dovevamo intubare un 46enne rispetto ad un 62enne che doveva invece aspettare perché non c’erano ventilatori. Sono scelte - ammette il dottore non ancora 40enne - che mi hanno profondamente segnato». Per la cronaca il 62enne non è riuscito a sopravvivere al coronavirus. «La maggior parte della gente che muore si è infettata con il virus e muore per un grave quadro di insufficienza respiratoria o per complicanze legate ad essa. Il decesso con o per il Coronavirus non cambia la situazione».
L’anestesista parla di esperienze provate sulla sua pelle anche una volta tolto il camice. «Tre giorni fa è morto mio zio di 72 anni. Ho parlato con il collega che lo aveva in cura in un altro ospedale e mi ha detto che non ha potuto fare altro. Gli ho risposto che capivo e che conoscevo la situazione. Anche mio zio rientra in quella categoria di pazienti che si potevano salvare, ma invece oggi è una vittima di scelte obbligate». Altro pugno nello stomaco. Come quando rifiuta l’etichetta di «medici eroi». «Stiamo facendo il nostro lavoro di ogni giorno solo che oggi in modo molto più intenso. Troppo facile togliere gli strumenti alla Sanità come accaduto in continuazione negli ultimi anni e poi dire che siamo degli eroi. Preferirei lavorare ogni giorno con gli strumenti adeguati e non avere etichette».
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