Fanghi tossici, a un anno dal caso Wte regole e processo a rilento
Brescia, Cremona, Pavia, Como, Vercelli, Piacenza, Novara, Verona: dieci milioni di metri cubi di terreno sdraiati sulle proprietà di almeno 176 aziende agricole domiciliate in 78 Comuni tra Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna sono stati rovinati da 150mila tonnellate di fanghi di depurazione e gessi da defecazione (il contenuto di cinquemila tir) sparsi illegalmente tra gennaio 2018 e agosto 2019.
Un business che parte dal Bresciano e che vede il suo epicentro - conclamato solo il 24 maggio del 2021, dopo dieci anni di denunce da parte dei Comitati ambientalisti locali - nella Wte. L’azienda, di casa a Calcinato, rappresenta il fulcro delle attività illegali contestate e ora deve rispondere dei reati di traffico illecito e gestione di rifiuti non autorizzata. Scrive il gip di Brescia Elena Stefana, lo scorso maggio, dopo i rilievi condotti dal dipartimento dell’Arpa guidato da Fabio Cambielli: «Nei campioni in uscita dalla ditta, e che sono stati sparsi sui campi, le sostanze inquinanti erano centinaia di volte superiori ai parametri di legge». Stiamo parlando di un cocktail di fluoruri, solfati, cloruri, nichel, rame, selenio, arsenico, idrocarburi, zinco e fenoli spacciato per concime.
Un anno dopo
A un anno esatto dal caso e a undici dalle denunce dei cittadini, a che punto siamo? A un punto morto. Non c’è ancora una data per il processo e la Regione Lombardia ha approvato una norma per il tracciamento dei gessi affinché «una nuova Wte non si ripeta», ma il Ministero della transizione ecologica ha impugnato la legge: illegittima, dice il Mite, perché la competenza in materia è di Roma. Una competenza che viene recriminata, ma che - almeno fino ad oggi - resta tuttavia inapplicata.Le denunce inascoltate
Definire i confini delle aree imbevute di sostanze tossiche è stato difficile. Talmente difficile che tuttora non si conosce l’estensione del danno. E mentre l’iter giudiziario fa il suo corso, il danno resta. «Fanghi e gessi, insieme a scorie di fonderia e polveri di abbattimento dei fumi, sono le tipologie di lavorazione nelle quali si riscontra la costante dell’illegalità. Per questo sono necessari controlli preventivi e repressivi: lo si ripete di continuo» ha detto il presidente nazionale di Legambiente Stefano Ciafani.
La proposta
Certo, ora il problema è certificato. Ma come se ne esce? Chi bonifica? «Con gli spandimenti illegali si va a infierire sui campi di aziende agricole spesso inconsapevoli. Gli appezzamenti restano inquinati e orfani per anni, perché a doverli risanare dovrebbe essere l’azienda che ha inquinato, ma l’iter processuale è lungo e i piccoli agricoltori non hanno la forza economica per intervenire» spiegano dai Comitati. Uno schema che si ripete, insomma. Ma una soluzione, secondo Legambiente, ci sarebbe e si chiama Fondo nazionale per le bonifiche. Spiega Ciafani: «Se si attivasse, esattamente come già fanno gli Stati Uniti dal 1980, questo problema si risolverebbe. Di casi come la Wte ce ne sono migliaia. Bisogna creare il fondo, renderlo permanente e lasciarlo alle Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente (Arpa). Una volta arrivati alla condanna definitiva di chi ha causato l’inquinamento, lo Stato si deve rivalere chiedendo quattro volte tanto il conto del danno».
L’audizione fantasma
Già, l’Arpa: a Brescia la direzione è di Fabio Cambielli che ci aveva provato, in tempi non sospetti, a sottoporre la questione sui tavoli romani. Correva l’anno 2017, siamo al 31 gennaio: la XIII Commissione del Senato (dedicata a Territorio, ambiente e beni ambientali) riceve Cambielli in audizione, dove lui illustra una serie di suggerimenti attraverso i quali si sarebbe dovuta revisionare una normativa lacunosa, un vuoto legislativo che avrebbe portato a conseguenze gravi e che lui, attraverso il lavoro condotto sul campo, ha iniziato a notare.
«I miei spunti di riflessione - ha raccontato il direttore - nascevano da una constatazione: la norma in vigore non consentiva agli enti di effettuare controlli adeguati. Ce ne siamo accorti sulla scia della chiusura delle indagini antimafia di Milano, condotte da Piero Basilone insieme ai Carabinieri del Noe. Da lì è stato tutto chiarissimo: trovavamo sostanze inquinanti, ma siccome per questi contaminanti non era stato fissato alcun limite da rispettare, non si poteva fare nulla».L’iter si è messo in moto, per poi frantumarsi contro un muro di burocrazia. Fino al decreto Genova, quando il Governo ha sì aggiornato la norma, ma solo per i fanghi e non per i gessi che, non essendo tuttora considerati come rifiuti, non si possono tracciare. Anche per questo da quando sono state chiuse le indagini a quando il caso Wte è arrivato alla fase clou dell’inchiesta sono trascorsi ben due anni. «E in questo lasso di tempo, quei terreni sono stati arati e, soprattutto, ricoltivati». Insomma: un solo tipo di veleno, ma molti tipi di responsabilità.
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