«A Torchiera scene da horror, trovammo Manolo grazie a un taxi»
«A quell’epoca studiavo, quindi non facevo vacanze. Il 16 agosto ero in ufficio quando arrivò la chiamata. "C’è stata una rapina a Pontevico" mi disserò, chiamai un’autista e mi feci portare là».
Solo che là l’allora ispettore Primo Sardi, responsabile della sezione rapine e reati contro il patrimonio della Squadra Mobile della Questura trovò tutt’altro: della rapina c’era solo l’apparenza. La sostanza era quella atroce di una carneficina: la strage di Torchiera. A trent’anni dall’omicidio di Giuliano Viscardi, di sua moglie Agnese, dei loro figli Luciano e Maria Francesca, Sardi ripercorre con noi quella giornata, quell’indagine, quella stagione.
Qual è la prima immagine che le viene in mente pensando a Torchiera?
«Ricordo quel fiume di acqua rossa che usciva dalla villetta e la scena del crimine appena dietro la porta d’ingresso: di quelle che si vedono solo nei film dell’orrore. Ricordo il corpo della moglie di Viscardi, era legata. Quello della figlia, rannicchiata accanto al calorifero dal quale - bucato da un proiettile - fuoriusciva l’acqua che ha allagato la casa. Ricordo anche la porta della sua stanza: era crivellata di colpi. C’era sangue dappertutto, ma della rapina non c’erano le tracce. Non c’erano segni di effrazione alle porte e alle finestre. Da casa non mancava nulla. Capimmo subito che l’indagine sarebbe stata in salita».
Da dove partirono le ricerche?
«Dalle vittime. Cercammo un plausibile movente nel loro passato, anche in quello più remoto. Non trovammo nulla: erano persone pulite, stimate, senza debiti, senza nemici. Abbiamo escluso praticamente subito che avessero pagato con la vita conti in sospeso».
La svolta fu una Mercedes grigia. Chi ve la segnalò?
«La notarono diverse persone, tornando a casa dopo la festa dell’Assunta. Ci dissero di averla vista parcheggiata non lontano dalla villetta del massacro, ma anche che non era di nessuno dei residenti di Torchiera. Molti ricordavano il particolare di una sola barra sul tetto, un portapacchi anomalo»
Individuato il pagliaio, a quel punto vi toccava cercare l’ago. Quale fu la mossa successiva?
«Cercare la Mercedes. Interrogammo i nostri terminali alla ricerca di auto rubate nei giorni precedenti il delitto. Trovammo un’auto che poteva fare al caso nostro. Era di un taxista di Ascoli, gli era stata rubata in garage».
Non un’auto qualsiasi. Cosa aveva in più?
«Aveva un radiotelefono a bordo. Nell’epoca in cui nessuno aveva il cellulare, risultò decisivo. Ci facemmo dare l’elenco delle telefonate di quell’apparecchio e scoprimmo che ben quattro, in quei giorni, erano state fatte verso la Serbia. A persone vicine a Ljubisa Vrbanovic e Ivica Bairic».
Bingo!
«Mica tanto, in realtà. Avevamo uno scenario, ma eravamo ancora lontani dai responsabili. Ci trovavamo di fronte a personaggi con diversi precedenti e con alcuni contatti in Italia, ma da qui a dire chi era stato a sparare ed uccidere a Torchiera ce ne passava».
Quando l’indagine fa il salto di qualità?
«Quando l’attenzione su Manolo e sul nipote cresce anche in Serbia. La Polizia di Belgrado condivide i nostri sospetti e sta sotto ai due. Il primo viene arrestato per alcuni furti. Ha con sé l’arma che ha sparato a Pontevico. Il secondo finisce in mezzo ad un conflitto a fuoco. Si asserraglia in casa. Piuttosto di consegnarsi si ammazza, con l’altra arma della strage di Torchiera. Il quadro si chiude. Abbiamo i due responsabili. Vrbanovic in carcere, Bairic sotto terra. Non resta che attendere l’esito del processo, che si chiuderà con la condanna di Manolo a quarant’anni di carcere».
Non li sconterà tutti, Vrbanovic morirà prima in cella. Così per le autorità serbe, così per la giustizia italiana. Non così per Guido Viscardi. Fa bene l’unico superstite a non fidarsi?
«Direi di no. Lo comprendo, ha passato e vive un dramma incommensurabile. Ma sul fatto che Manolo sia morto non ci possono essere dubbi. Di sicuro non è scappato dal carcere, durante la guerra dei Balcani all’inizio degli anni ’90. Avevamo incarico da parte della procura di verificare il suo stato di detenzione ogni tre mesi: le autorità serbe arrivarono ad odiarci per la nostra insistenza. Dalla cella per me non si è mai mosso, sicuramente non da vivo».
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