Pink Floyd, un fiume pigro e senza fine
Rimettere il vestito del gran ballo scolastico e scoprire che non ti sta più come quando avevi 18 anni. Invitare di nuovo lei, quella che ti faceva battere il cuore, e trovarla un po’ invecchiata. È il paradigma di un sogno svanito (sempre se di sogno si deve parlare) il nuovo cd dei Pink Floyd, che con «The Endless River» hanno pubblicato materiale rimasto inedito ai tempi di «The Division Bell», quindi con il compianto Richard Wright ancora al comando delle sue mille tastiere. Un disco che suona terribilmente fuori tempo, e forse anche un po’ fuori luogo. Perché è difficile dare un senso a schizzi sonori che nulla aggiungono, a livello artistico e creativo, all’epopea di David Gilmour e Nick Mason, ma ripescano in quelli che, trenta anni fa, erano bagliori scintillanti di creatività, mentre oggi assomigliano a cliché già abusati. Volete le prove? Eccovi accontentati: inserisci il cd nel lettore e «Things left unsaid» rimanda senza possibilità di errore a «The Dark Side of the Moon». Resti un po’ imbambolato, indeciso se farti rapire o azionare il tasto skip. Opti per l’opzione numero due, e arrivi a «It’s what we do», venendo proiettato nel clima di «Wish You were Here» (l’album, non la canzone). E la litania dei rimandi mica finisce qui. «Ebb and Flow» è una «One of these Days» suonata da rocker un po’ su con l’età, «Skins» riesuma tribalismi alla maniera di «A Saucerful of Secrets», ma qui le tracce lisergiche sono definitivamente evaporate. Sarà iconoclastia, ma questo fiume senza fine è bene si fermi a riposare. La gloria non va offuscata, nemmeno in nome della nostalgia.
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