Il ragazzo Down, il mio maestro di umanità
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di Sofia Trebeschi - 19 anni, Collebeato Ho uno zio di 33 anni affetto da sindrome di Down. Quanti nella società odierna rifiutano le persone come lui o addirittura pensano che sia meglio, per loro e per i genitori che dovranno prendersene carico, non partorirli affatto? Quanti li considerano degli infelici, dei pesi inutili? Per me il ragazzo down non è un mongoloide, un disgraziato o un piccolo mostro; lui è il mio più grande maestro di umanità. Cosa possiamo imparare noi, che ci autodefiniamo «normali», da lui? Soprattutto tre cose: la curiosità, l’empatia e l’umiltà. Studiando Pascoli e la sua «poetica del fanciullino» ho pensato al modo di guardare alle cose di mio zio, al suo cogliere la semplicità di un gesto che spesso superficialmente io tendo a banalizzare, a non vedere, perché ho perso la curiosità del bambino. Lo zio Giò, come il fanciullino, è irrazionale, si lascia trasportare dalle emozioni, si nutre di immaginazione, ricorda cose mai viste. In un’epoca dominata dal consumismo, dall’interesse materiale, dove spesso ci si sofferma alla superficie di ciò che ci circonda, una visione più profonda della realtà non guasterebbe. Mi pare che oggi, sempre più, si tenda a vedere il prossimo come mezzo e non come fine, che le persone siano più concentrate sugli interessi individuali che su quelli della comunità. Noi esseri umani sappiamo provare empatia, siamo l’«homo empaticus», ma riusciamo davvero a guardare attraverso gli occhi degli altri? Lo zio Giò riconosce la dignità dell’altro, desidera il suo bene, sa che cos’è la compassione: non importa quanto banale può sembrare il dolore della persona, se è dolore lui lo sente e lo condivide. Per quanto riguarda l’umiltà mi viene in mente una lirica di Saba dal titolo «Meditazione», nella quale il poeta siede davanti alla finestra e afferma che tutta la sua forza consiste in due azioni: guardare ed ascoltare. Poi si rivolge all’uomo che non stima ciò che lo circonda: il suo lume, il suo letto, la sua casa; gli sembrano tutte cose da poco, poiché quando lui nasceva vi era già il fuoco, la coperta, il letto. Ma se egli si fermasse a meditare penserebbe allo strazio che fu per i suoi avi, «prima che sorgesse tra le belve una capanna, che il suono diventasse ninna-nanna». È questa l’umiltà di mio zio: guardare, ascoltare, meditare. Senza la pretesa di giudicare negativamente ciò che lo circonda, apprezzando, non vivendo nell’insoddisfazione, nel desiderio di avere sempre di più. Lui, che potrebbe lamentarsi di come lo vede la società, di essere emarginato, di sentirsi inadatto, preferisce sorridere assieme a una famiglia che lo ama.
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