Esame per avvocati: «Una selezione poco motivata»

Un giovane avvocato traccia la sua esperienza all'esame di Stato che bolla come sconcertante: la testimonianza
L'esame di Stato per diventare avvocati
L'esame di Stato per diventare avvocati
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Sono un giovane avvocato penalista di 31 anni che ha vissuto un’esperienza sconcertante. Laureato all’Università di Brescia, ho svolto il regolare periodo di pratica professionale forense - effettiva e non fittizia - ed ho superato l’esame di abilitazione alla professione di avvocato.

Le prove scritte consistono nella redazione - a mano, ancora oggi - di due pareri motivati aventi ad oggetto una questione regolata dal codice civile, una dal codice penale e la redazione di un atto giudiziario. A dicembre di ogni anno si svolgono le prove scritte ed a giugno dell’anno successivo vengono comunicati i risultati; con rammarico apprendo che non sono stato ammesso all’esame orale poiché non ho ottenuto il punteggio complessivo di almeno 90 punti (30 per ogni prova).

Ottengo la copia dei compiti e con grande sorpresa leggo in calce al primo parere «trenta, 30»; al secondo «trenta, 30» ed all’atto giudiziario «venticinque, 25».

Mi chiedo, tutto qui? Nessun giudizio? Nessuna motivazione? Solo un numero. Perché non 30, 35 e 25? Sarei stato ammesso all’esame orale.

Rileggo l’atto giudiziario valutato insufficiente alla disperata ricerca di un errore ortografico, di un’imprecisione nella sintassi di uno strafalcione giuridico... nulla. Chiedo allora un parere all’avvocato presso il quale ho svolto la pratica e con cui collaboro: «Non vedo errori».

Sono rabbioso: perché non sono stato ammesso? Perché 25 e non 30? Dov’è l’errore? Come faccio a capire quale errore ho commesso da un numero? Mi sovviene allora il ricordo, dal corso di diritto amministrativo, dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi «compresi quelli concernenti (...) lo svolgimento dei pubblici concorsi». Voglio fare ricorso! Intendo fare ricorso perché da un numero non ho capito quale e dove sia il mio errore, perché già all’università quando studiai diritto penale e diritto processuale penale capii che l’avvocato era la professione che avrei voluto fare nella mia vita.

Svolgo una ricerca giurisprudenziale sui ricorsi amministrativi contro i provvedimenti di non ammissione all’esame orale e dopo tre giorni ho già cambiato idea. Consiglio di Stato, sentenza n. 2557/2010: «I provvedimenti della commissione esaminatrice vanno di per sé considerati adeguatamente motivati, quando si fondano su voti numerici, attribuiti in base a criteri da essa predeterminati, senza necessità di ulteriori spiegazioni e chiarimenti, valendo comunque il voto a garantire la trasparenza della valutazione». Corte Costituzionale, sentenza n. 175/2011: «Il punteggio, già nella varietà della graduazione attraverso la quale si manifesta, esterna una valutazione che, sia pure in modo sintetico, si traduce in un giudizio di sufficienza o di insufficienza, a sua volta variamente graduato a seconda del parametro numerico attribuito al candidato». Aspetto sei mesi per rifare l’esame scritto con quattro certezze.

La prima, ancora oggi a distanza di anni, non so quale errore, sempre che esista, mi abbia impedito di accedere all’esame orale. La seconda, non posso avere altre fonti di reddito: quale praticante abilitato al patrocinio, secondo l’art. 18 della nuova legge forense sono incompatibile con qualsiasi altro lavoro, autonomo o subordinato. La terza, non posso lavorare: sono abilitato a difendere persone accusate di reati non gravi ma solo, come ha stabilito la Corte Costituzionale nella sentenza n. 106/2010, se mi conoscono, se si fidano della mia professionalità e quindi mi nominano loro difensore di fiducia.

Ma chi conosce un praticante avvocato del foro di Brescia dove in Lombardia ci sono circa 32.000 avvocati? Nessuno. La quarta ed ultima certezza è l’attualità del pensiero del filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham, che nella sua opera principale «Introduzione ai principi della morale e della giurisdizione» aveva già nel 1789 constatato un’evoluzione storica della giurisprudenza inversa a quella delle altre scienze: se in queste «si vanno sempre più semplificando le procedure rispetto al passato; nella giurisprudenza le si vanno sempre complicando.

E mentre tutte le arti progrediscono moltiplicando i risultati con l’impiego di mezzi più ridotti, la giurisprudenza regredisce moltiplicando i mezzi e riducendo i risultati».

Lettera firmata

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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